Barcellona, Parc del Fòrum • 29 maggio-2 giugno
Live record a cura di Francesca Mastracci
Fisso lo schermo bianco del computer da un po’, con il cursore che lampeggia e di tanto in tanto qualche sillaba mozzata che appare e scompare, cercando di farsi strada tra il flusso disordinato dei pensieri che si accalcano nella mia mente.
Conosco bene questa sensazione. È la stessa che mi accompagna più o meno tutte le volte che mi trovo a fronteggiare il compito di parlare di un evento o di un festival che hanno avuto particolare risonanza in me.
In questo caso specifico, il racconto del Primavera Sound si carica maggiormente di responsabilità perché si tratta del festival europeo più grande al quale mi sono ritrovata in veste di reporter.
Visto che le sillabe hanno iniziato a prendere la forma di frasi compiute, direi che il primo scoglio è superato. E quindi, dicevamo, come lo si racconta il PS?
Non sono mai stata di spirito cronista, preferisco di gran lunga narrare emozioni, a maggior ragione perché credo che in effetti a nessuno interesserebbe il pedissequo resoconto di una tre giorni fitta di set, seguiti o per intero o in modo discontinuo per coprirne quanti più possibile. Perciò il report diventerà all’occorrenza un live record, e cercherò di condensare le sensazioni che ho vissuto piuttosto che la fattualità degli eventi nel loro decorso temporale.
Le raccomandazioni dai veterani del festival che avevo raccolto prima di partire mi avevano fornito una sorta di vademecum che lascio qui, in memoria e monito per gli anni che verranno.
Porta con te solo scarpe comode e borse in cui entra il necessario o poco più.
Metti dentro un k-way, ti potrà servire anche se il meteo non dà pioggia.
Dimentica i programmi, non serviranno quando a guidarti saranno le pulsioni che stai vivendo in quel preciso istante.
Non sarai mai sola, ci sarà sempre un gruppo o un altro di persone che conosci o che hai avuto modo di conoscere durante il festival ad accompagnarti.
O se sarai sola ti sentirai comunque connessa profondamente con qualcosa più grande di te che travalica lo spazio.
Sarai un pendolo, farai corse contro il tempo e macinerai i chilometri tra i main stages e gli altri palchi nel Parc del Forum. Ti faranno tanto male i piedi.
I sebach non saranno terribili e a volte profumeranno di mandorla.
Ci sarà un clima di festa perenne e tutti saranno presi a bene.
I tuoi bioritmi si invertiranno e dormirai di giorno per vivere la notte.
Barcellona non sarà mai così bella come in quei giorni.
Sono partita avendo alte aspettative sul festival e su me stessa. Le ho tralasciate due minuti dopo aver fatto l’ingresso in quella che per tre lunghi giorni è stata una bolla, un microcosmo al cui interno tutto si autocompletava, gli eventi si succedevano veloci ma anche estremamente lenti in egual misura, e ogni percezione risuonava nell’anima in maniera diversa rispetto al consueto. Un senso liberatorio e liminale di ilarità diffusa che, per qualche giorno, si è riflesso anche nelle nostre vite al di fuori del festival. È importante fare un preambolo sul contesto se si vuole parlare di un festival il cui grande punto di forza, oltre la line-up incredibile, è proprio il clima che si respira, corroborato da un’organizzazione ineccepibile, potenziata al puntino nel corso degli anni.
Ma adesso è arrivato finalmente il momento di parlare dell’aspetto musicale e tracciare a grandi linee quelli che sono stati, per chi scrive, gli highlights maggiori del festival.
Spoiler: ci saranno molte mancanze dolorose per fattori di sovrapposizioni. Ma il bello del Primavera in fondo è anche questo, ti catapulta nell’ottica che compiere delle scelte sia un fattore del tutto naturale da affidare rigorosamente al cuore, che – fidatevi – si rivelerà essere la guida più saggia.
Partirei dunque questo viaggio di reminiscenza festivaliera dalle grandi scoperte. Primi fra tutti, i MILITARIE GUN, gruppo hardcore punk di Los Angeles che conoscevo solo perché mi erano comparsi in qualche playlist su spotify creata sulla base dei miei ascolti. Pensare che non li avevo neppure messi in scaletta! Appena è partito il loro set, però, non ho avuto dubbi e ho rinunciato ai Royel Otis per godermi del gran bel pogo come si deve. Energia urticante, sostanziosa, magnetica: come pallottole impazzite ci sparano addosso tutta l’efferatezza devastante di un sound selvaggio e brutale. La cover di “Song 2” dei Blur è stata letteralmente deflagrante.
Altra piacevole scoperta sono stati i Crumb, anche loro band di origine californiana sebben di genere diametralmente opposto rispetto ai MG. Loro li conoscevo già, ma ero molto curiosa di sentirli live. Trip-hop morbido, dreamy, a tratti con qualche ammiccamento shogaze, che vagamente ricorda le eteree sonorità dei Mazzy Star.
Arriviamo ora alle band che sapevo già mi avrebbero coinvolta, ma non immaginavo così tanto.
I Blonde Redhead al Cupra (anfiteatro che affaccia sul mare), al tramonto, con il cielo che iniziava a tingersi di rosa, mi hanno lasciato senza parole. La classe impeccabile di Kazu Makino e dei gemelli Pace sono stati un abbraccio caldo che mi ha restituito un senso di completezza che solo i grandi fuoriclasse del suono riescono ad imbastire. Una cifra stilistica che live mette insieme i ritmi concitati noise e ascendenze morbidamente pop, sebben sempre acide. Gran set!
Altra band che aspettavo da tempo sono stati i Duster, band slowcore dalle ritmiche pervasive con lunghissimi tappeti post-rock, atmosfere malinconiche che sposano stasi trascendentali, catapultandoci nell’iperspazio, dove per un’oretta mi sono persa, avulsa da tutto il resto. Feels penetranti e rarefazioni impeccabili!
In assoluto, però, tra i gruppi che fremevo per vedere live c’erano i The Armed, la “punk band from Detroit, Michigan” come in maniera lapidaria si autodefinisce il collettivo americano. Questo ensemble, di cui non si sa specificatamente chi ne faccia parte, fonde in maniera ardita post-hardcore, elettronica, math-rock e pop: sì, tutti insieme, e sì anche all’interno di uno stesso pezzo. Un set folgorato, che mi ha fatto sanguinare le orecchie per i volumi altissimi, avere le allucinazioni quando chiudevo gli occhi quella notte (sic, mattina) e qualche bel livido sparso.
Il momento è giunto per concentrarmi sulla rosa dei nomi che per me hanno segnato indelebilmente il PS 2024.
I Deftones, in sovrapposizione con i Pulp (una delle rinunce più sofferte) hanno realizzato un set che avremmo voluto non finisse mai. Anni di maestria sui palchi si vedono dal primo accordo: compattezza sonora, bassi portentosi e traiettorie angolari che procedono in maniera stratificata sposandosi alacremente con la voce di Chino Moreno con il suo cantato sofferto e intenso. La band di Sacramento dal sound inequivocabile che abbraccia crossover e numetal ha coinvolto chiunque fosse presente.
Favolose anche le visuals allucinate, a tratti disturbanti e semi-gore.
A proposito di Sacramento, altra menzione d’onore va a Chelsea Wolfe con un set all’Auditori nella completa oscurità, immersa nelle luci soffuse. Lo scenario perfetto per accompagnare la sua musica e acustica perfetta.
Wolfe, timidamente avvolta nel suo manto da sacerdotessa dell’oscurità, mette su un ardito e conturbante vortice sonoro che ci immerge in terreni saturi di riverberi industrial e dilatazioni elettroniche; una rarefazione sintetica di spiragli trip-hop dal gusto gothic e dall’animo profondamente radicato nel doom.
Una delle mie cantautrici preferite. Da lascrimoni sentirla in auditorio.
Ma le lacrime quella sera (la seconda, ndr) si sono protratte anche al set dei National, che ho atteso per circa due orette sottopalco da uno dei main stages mentre sull’altro (contiguo) si esibiva Lana Del Rey, la grande star di quel giorno che ha trasformato l’arena in una fiumana di gente, non a caso in gergo quell’area è stata ribattezzata Mordor dagli aficionados del festival.
Riguardo la band di Matt Berninger e dei fratelli Dessner e Devendorf, erano un po’ di anni che non li vedevo live. Li ho trovati estremamente in forma, nella loro eleganza che non si smentisce mai e l’animo punk, crudo, verace, che si esprime nell’interpretazione sofferta e piena di pathos del cantante. Il loro set, durato due ore piene, è stato uno scorcio nella loro discografia completa, abbracciando le orchestrazioni evocative chamber-rock dell’ultimo periodo intavolate su arrangiamenti essenziali e, invece, le partizioni ritmiche in progressione e quei riff angolari tanto familiari ai primi lavori, che sembrano voler squarciare il cuore degli ascoltatori ogni volta. Già vorrei rivederli di nuovo!
Sempre quella sera, ho fatto il triplete e sono andata di filata dopo i National a sentire nuovamente i BRUTUS, band belga di cui mi sono irrimediabilmente innamorata dopo averli ascoltati live qualche mese fa. Il loro live crea un continuum in cui i suoni blackgaze vengono costantemente accarezzati dal doom e stravolti un istante dopo dalle sezioni ritmiche post-hardcore che irrompono poderose avvolgendo la voce suadente, e al tempo stesso struggente, di Stefanie.
Mi sposto all’ultima serata con la regina indiscussa del day 3: PJ Harvey (qui la sovrapposizione era con Liberato che comunque avrei voluto molto vedere live).
Neanche il tempo di iniziare il suo live che già si sente qualche goccia cadere, destinata a tramutarsi qualche istante dopo in tempesta. Ma noi restiamo tutti ammaliati da un’altra forza della natura: Polly Jean, che ci ammalia con la sua vocalità suadente e segue il flusso ritmicamente cadenzato dai suoi esperti musicisti. L’incedere del tempo è scandito da una sospesa decompressione degli istanti, tra chitarre che pulsano, riverberi abrasivi, incursioni pianistiche e un sound chiaroscurale dolce e malinconico.
Polly Jean costruisce un set teatrale fatto di siparietti e danze che la rendono, avvolta nel suo lungo vestito bianco, la fata buona in una storia incantata. Magnetica profondamente evocativa; nel tributo a Steve Albini con “The Desperate Kingdom of Love” ci ha toccati nel profondo e le lacrime si sono confuse volentieri con la pioggia
Sempre sotto l’acqua scrosciante, ho corso il rischio di un’influenza pressocché assicurata (che poi come per magia non è arrivata) solo per Mike Kinsella &co. Gli American Football sono un po’ i numi tutelari di tutti noi emo kids, cresciuti con i riverberi emozionali del midwest emo tra le sue malinconie sussurrate, le tempeste strumentali in partiture scomposte e le linee morbide che si insinuano delicate. Ascoltare live un inno generazionale come “Never Meant” è stato un vero colpo al cuore. Kinsella, con il suo bel cappellino degli Slayer e l’immancabile camicia a quadri, scherza con il pubblico con quel suo fare sempre un pelino dismesso che tanto ci fa venire voglia di abbracciarlo. Sono stati il nostro tetto sotto cui ripararci non solo in quest’occasione e infatti anche la pioggia smette sul finale.
Ci sarebbe molto altro ancora: il set pazzesco dei Mount Kimbie che stanno facendo una crescita esponenziale dal punto di vista artistico, gli stilosissimi BADBADNOTGOOD che rivedo ogni volta che mi capitano a tiro, la classe intramontabile degli Arab Strap e dei Yo La Tengo, la carica esplosiva delle Bikini Kill e la delicatezza di una band che a mio avviso promette grande cose, gli Slow Pulp.
Ma l’edizione 2024, come ha titolato un mio amico il suo post di recap sul festival, è stata anche la prima senza gli Shellac, ai quali però è stato dedicato un listening party in apertura della prima serata sul palco che da quest’anno si chiamerà Steve Albini. Vedere quel palco vuoto con quella musica sparata a volumi altissimi è stato come assistere ad un funerale. C’è chi alzava il bicchiere in aria, chi cantava a squarciagola i pezzi del nuovo disco uscito da pochi giorni, chi aveva gli occhi lucidi. So long, Steve! Non te ne sei mai veramente andato per noi.
È stata un’edizione incredibile e ci porteremo dietro tanti bellissimi ricordi, con la speranza che possa diventare una nuova tradizione.
Qui vi lasciamo la nostra playlist. Dentro ci sono solo i set a cui abbiamo assistito (disclaimer: i Model Acriz li ho visti nelle dirette sui social mentre tornavo in stanza fracica fino al midollo, ahimé).