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Viva il fallimento: intervista ai Leda

In un mondo frenetico come quello musicale, riuscire a catturare l’attenzione di un pubblico immerso quotidianamente nel mare magnum di nuove uscite non è affatto semplice. Anche nell’ambiente DIY —“do it yourself”, microcosmo parallelo al mondo delle major e della musica pop, oggi più vivo che mai— le novità si susseguono senza sosta, con un interesse crescente verso generi come l’hardcore e lo screamo (o, per per usare un termine più generico preso in prestito dallo slang della scena, “skramz”). Proprio a cavallo tra lo screamo e il post-hardcore troviamo i Leda, una delle band che ha più catturato il nostro orecchio nell’ultimo periodo nonostante un EP di esordio della durata di soli 10 minuti (!).

Abbiamo avuto il piacere di scambiare qualche parola sul loro processo creativo, sull’approccio DIY alla musica e alla vita, e di curiosare nei loro gusti personali —soprattutto con l’ultima domanda…

Ciao ragazzi, iniziamo dalle presentazioni per rompere un po’ il ghiaccio: nome, ruolo nella band, una cosa che ami e una che odi.

Leonardo, batteria. Amo l’inverno, odio chi non mangia a bocca chiusa.

Vittoria, voce. Amo il mio cane Beba, odio i proprietari di casa.

Antonio, basso. Amo le bitter ale e odio i vini corposi.

Giorgio, chitarrista. Amo le passeggiate solitarie nelle notti d’estate. Odio dimenticare un sogno al mattino.

Per conoscere meglio il vostro progetto vorrei partire da uno dei temi più identitari quando si tratta di una band. Da dove nasce il nome Leda?

Nella primavera del 2024, dopo un anno di prove, la prima formazione della band ancora non era stata battezzata. Giravano già tra gli amici le prime versioni strumentali delle canzoni, registrate in saletta col telefono; i pareri erano entusiasti, però continuavamo a non avere un nome e a non andare da nessuna parte. Avevamo rimandato la questione, confidando che nel processo di scrittura delle musiche e dei testi si sarebbe venuto a delineare un immaginario riconoscibile di riferimenti nominabili, ma i primi tentativi non ci trovavano d’accordo: alcuni suonavano banali, altri ridicolmente solenni, qualcuno si prestava a facili storpiature, mentre qualcun altro sarebbe stato perfetto, se solo non fosse già stato preso… (maledetti Reverie!)
Cercavamo qualcosa di immediato e al contempo evocativo e ad un certo punto provammo con dei nomi di persona.
Allora venne fuori Leda. L’ispirazione proveniva da Leda Rafanelli (anarchica italiana di fine ‘800, ndr), ma il senso della proposta non stava banalmente nell’omaggio puro e semplice, quanto piuttosto nell’aura stessa di questo nome elegante, desueto, suggestivo. Ad ogni modo ci piacque e continuammo a ripetercelo, fino a quando, mesi dopo, ci fu chiesto cosa scrivere sulla locandina del debutto e la risposta venne naturale.
E poi a quel concerto ci fu l’incontro con Vittoria.

ph. Matias Biglieri

Novembre 2024 ha visto l’entrata di Vittoria come cantante. Da musicista vi chiedo: come avviene la scrittura dei brani? Il suo ingresso ha stravolto il vostro processo creativo oppure ognuno è responsabile solo del proprio ruolo nella band?

La fase di scrittura è piuttosto canonica, parte quasi sempre da un giro di chitarra e poi in sala si cerca di dare una struttura tutti insieme. Raccogliamo gli input provenienti da ciascuno di noi, quindi ognuno è essenziale in questa fase.

E, a proposito di processo creativo: il vostro EP è stato rilasciato tramite No Hope Records, etichetta DIY. Nel DIY nessuno vi chiede compromessi, ma nessuno vi salva dal fallimento. Questa condizione, secondo voi, esercita pressione nell’espressione creativa o è un processo liberatorio?

In realtà per noi il DIY è l’unica maniera che conosciamo di fare le cose, sia come musicisti, che come organizzatori (Vittoria fa parte di RMSKRMZ, collettivo che organizza concerti a Roma). Quindi direi che per noi è una condizione in cui ci troviamo bene, facciamo le cose con i nostri tempi, con i nostri modi. Le stesse cassette che abbiamo fatte sono al 100% DIY, alla fin fine No Hope Records è una creatura e croce di Antonio —non poteva non farci le cassette EHEH.
In ogni caso il fallimento lo accettiamo serenamente, viva il fallimento!

Dopo il primo ascolto vi ho definito, neanche troppo ironicamente, “i miei Deafheaven”. In particolare in “dei miei occhi”, brano di apertura del vostro primo EP, sento molte influenze da band come Deafheaven e La Quiete, sia nella struttura dei brani che soprattutto nelle parti di chitarra. C’è una band a cui vi sentite particolarmente affini e a cui tendete nella fase di scrittura o credete sia qualcosa di spontaneo, inconscio?

V: È un’osservazione che ci fa molto piacere, soprattutto perché Sunbather è stato sicuramente un disco importante per me, in particolare per quanto riguarda l’approccio vocale. Mi sento molto affine anche a band come Envy e Converge, che hanno influenzato il mio modo di scrivere e di interpretare le parti più intense per Leda. In questo EP ho voluto sperimentare qualcosa di diverso rispetto all’ approccio hardcore che uso nei miei altri progetti (e.g., Rescue Cat), dove uso un registro più dinamico, “malleabile” e tamarro. Qui ho cercato un’impostazione più ambient, quasi monotonale, che si potesse fondere con l’atmosfera strumentale senza sovrastarla troppo. È stata una scelta un po’ consapevole e un po’ istintiva, dettata anche dal tipo di brani che stavamo scrivendo insieme.

G: senza dubbio i miei gusti musicali si sono formati sulla discografia dei La Quiete, che per me continua a rappresentare l’eccellenza in questo genere, in termini di potenza espressiva e soluzioni compositive. Per quanto riguarda il paragone coi Deafheaven, invece, non posso dire di conoscerli altrettanto bene, ma è senz’altro vero che Sunbather è un album che ho ascoltato con attenzione e ammirazione, insieme ad altre uscite provenienti dalla galassia del black metal meno ortodosso, specialmente Liturgy e Agriculture. Le tue intuizioni colgono nel segno quindi, si tratta certamente di influenze presenti e consapevoli. Detto ciò, però, il nostro processo creativo non è mai guidato dall’applicazione di formule date o dall’imitazione di modelli prestabiliti, ma parte piuttosto da un paio di accordi o da un arpeggio e ne immagina gli sviluppi possibili, senza porsi preventivamente il problema di cosa o chi ricordano.

I vostri testi sembrano scritti con le unghie, più che con la penna, una preghiera a cuore aperto per qualcosa che non c’è più. Quanto vi interessa piacere a chi vi ascolta e quanto invece pensate sia una necessità tirare fuori quello che vi tormenta, senza badare troppo alla forma?

Credo che il punto di partenza, per noi, sia sempre un’urgenza interiore. Scrivere è prima di tutto un atto necessario, lo tiriamo fuori così com’è, anche in forma grezza. Solo dopo arriva la fase di riordino, in cui cerchiamo una forma che possa rendere comunicabile ciò che era solo impulsivo.

ph. Matias Biglieri

Per chiudere una domanda fondamentale per tutti quello che vi leggono. Patatine alla paprika o lime e pepe rosa?

L: Direi paprika, c’è un legame affettivo che viene da quando ero più piccolo, però sono aperto anche a sapori più esotici.

A: Sempre alla Paprika! Ma se le facessero al Garam Masala sarebbe pure meglio.

V: lime e pepe rosa pk sono quasi sempre quelle vegane tra le due opzioni.

Immagine che rappresenta l'autore: Marco Pucci

Autore:

Marco Pucci