A Place To Bury Strangers, Social Park (Roma) 18/07/2019
Che rumore fa il tritolo quando esplode?
Più o meno quello che fa sul palco una band statunitense composta da tre folgorati visionari che portano il nome di A Place to Bury Strangers. Chi li ha visti almeno una volta sa di cosa sto parlando, chi non li ha mai visti “basta” che immagini un caos di noise showgaze suonato a volumi super elevati tra chitarre volanti (e non in senso metaforico) e laser fatti roteare mentre vengono sparati verso il pubblico. Nelle date indoor molto spesso al banchetto del merchandising hanno anche i tappi auricolari, giusto per farvi un’idea sulle lacerazioni sonore che può provocare un loro concerto. Sì, ma quanto godimento!
Dei tappi ieri non c’è stato bisogno, visto che la data era all’aperto, in un campetto sportivo perso tra le campagne al centro di Roma allestito come un villaggio turistico per ospitare la prima edizione del Social Park Festival.
La serata è iniziata anche abbastanza tardi con un dj set ben arrangiato per far compagnia tra una chiacchiera e l’altra e preparare quanto basta l’atmosfera prima del live in un contesto a primo acchito abbastanza inusuale per il trio newyorkese. Unico rammarico è che c’era poco pubblico, forse per la poca sponsorizzazione dell’evento, forse per l’infrasettimanale o forse per la troppa vicinanza con il ben più noto festival di Villa Ada. Ma comunque, una serata molto piacevole. Loro sono ineccepibili in ogni contesto, questa è la verità. Indecentemente meravigliosi nella loro anarchia sonora, salgono sul palco alle 23 spaccate e tirano dritti fino alla fine, con tanto diencore, per un totale di un’ora e un quarto di delirio totale. La sensazione è paragonabile a quella di un rollercoaster dentro lo stomaco che ti trascina sulle vette più alte facendoti cadere a strapiombo un istante dopo, il cuore pulsa a ritmo dei bpm sempre più alti e senti contorcersi qualsiasi organo che hai dentro. È una sensazione difficilmente traducibile in parole che investe soprattutto il corpo. E non ci vai per cantare sotto palco i pezzi ad un concerto del genere, ci vai proprio per essere investito in maniera totalizzante da quell’anarchia di rumori accozzati insieme senza compromessi, prepotenti nel loro disordine disturbato, trasudanti di riverberi urticanti e spietati colpi di batteria. Proprio dietro quest’ultima, troviamo la presenza della new entry Lia Simone Braswell (nella band dallo scorso anno) che dona alla band capitanata da Oliver Ackermann, un gran valore aggiunto grazie alla sua voce profonda e straziata in linea perfetta con il mood dell’ultimo disco (Pinned), forse meno new wave rispetto al passato ma sempre molto elettrico. Ma la scaletta, ovviamente, ha visto anche la presenza di pezzi storici, come l’immancabile “Ocean” o “Fill the Void”, “Keep Slipping Away” e “Dril It Up”.
Anche vederli esibirsi sul palco è uno spettacolo interessante da osservare: Oliver, con una chitarra letteralmente spaccata a metà, sembra uscito da un quadro di Goya e come Saturno ha la voracità di chi sta per divorare il microfono; Lia, vestita di rosa acceso, si dimena senza accenno di tregua dietro la batteria; e il bassista Dion, con un approccio apparentemente imperturbabile, accompagna le linee strutturali dei pezzi vorticando su se stesso. Tre entità diverse che conducono un live in cui parrebbe di ascoltare i Joy Division suonati dai Nirvana che si sono fusi con i My Bloody Valentine. La verità però è che sono loro, inconfondibili ed unici.
Un live che andrebbe vissuto da tutti una volta nella vita, anche dai poco amanti del genere, per avere un’idea di quale livello il suono può raggiungere prima di spaccare i timpani e riempire il corpo.
A cura di: Francesca Mastracci