Nelle viscere del Bunker di Torino, tra cemento e luci, il festival Jazz Is Dead si è confermato ancora una volta un rituale laico per chi cerca musica che superi i confini del genere. Le serate dell’1 e del 2 giugno sono state un’immersione totale nel suono, nella politica e nell’estasi collettiva.
La venue è quella di sempre: il Bunker, spazio post-industriale incastonato nel cuore del quartiere Aurora. Un luogo che sembra fatto apposta per accogliere la spiritualità distorta e febbrile di un festival che da anni si muove sul confine tra jazz, elettronica, noise e visioni globali.
1 giugno: intensità emotiva e viaggi fuori dal tempo
La serata del primo giugno è iniziata con il live di Alabaster DePlume, sassofonista inglese noto per i suoi concerti che alternano momenti parlati a passaggi musicali densi di significato. Il suo set è stato profondo, quasi rituale, con l’artista che ha ricordato più volte al pubblico il dramma del popolo palestinese, rendendo lo show anche un momento di riflessione politica.
Musicalmente, DePlume ha mescolato melodie che richiamano il jazz etiope di Mulatu Astatke con improvvise virate noise, a tratti vicine al suono della band italiana Zu. Le introduzioni erano lente e sognanti, mentre le parti più esplosive spezzavano la quiete con energia e dissonanze.
A seguire, è salito sul palco Hijrok, progetto visivo e musicale ideato dalla cantante curda Hani Mojtahedy. I brani, costruiti a partire da registrazioni sufi ed elaborati insieme a Andi Toma (Mouse On Mars), hanno dato vita a uno show a metà tra il concerto e la performance artistica. Le sonorità erano dense di percussioni e richiami africani, il tutto immerso in un’atmosfera crepuscolare che ha trasformato il Bunker in uno spazio sospeso.
A chiudere la serata ci ha pensato l’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp, collettivo svizzero dalle forti tinte festose e teatrali. Sul palco erano in tantissimi, e l’impatto visivo era immediato: strumenti che si alternavano, voci, sezioni ritmiche, violini. Il pubblico non era solo spettatore, ma parte attiva del concerto. L’energia era contagiosa, e il coinvolgimento totale. Tra chitarre con attitudine punk e ritmiche spezzate, le parti di xilofono ricordavano per stile e costruzione i Tortoise, aggiungendo un ulteriore strato sonoro a un live che ha fatto ballare praticamente tutti i presenti.
2 giugno: il Bunker diventa club
La giornata del 2 giugno ha cambiato completamente registro, puntando tutto su un’impostazione più orientata al clubbing puro. Il festival si è spostato dal palco esterno all’interno, dove è stato montato un impianto potentissimo, con bassi così profondi da sfiorare la tachicardia.
La serata si è mossa su ritmiche elettroniche dritte e martellanti, intervallate dall’intervento dub di una leggenda vivente come Mad Professor. Il suo live ha mischiato beat ipnotici, campioni di Massive Attack, delay a cascata e vibrazioni old school, trasformando la pista in un turbine di danze selvagge e sorrisi.
L’intero Bunker si è trasformato in una gigantesca sala da ballo. All’interno il sound system sparava musica ad alto volume, mentre all’esterno veniva trasmesso in streaming, permettendo a chi voleva prendersi una pausa o fumare una sigaretta di non perdere il filo del set. La pioggia leggera caduta in tarda serata ha contribuito a creare un’atmosfera ancora più densa, quasi cinematografica.
Jazz Is Dead si conferma un festival capace di cambiare pelle a seconda dell’ora e del palco. In due giorni, il pubblico ha attraversato momenti di ascolto profondo, trance collettiva e balli. Un evento che continua a spingersi oltre, senza compromessi.