Poco più di una settimana fa è uscito Songs Of A Lost World, l’ultimo attesissimo (e dire attesissimo in questo caso è davvero un eufemismo ) disco dei The Cure.
A ben sedici anni di distanza da 4:13 Dream (del 2008), la scorsa estate inaspettatamente qualcosa si era smosso sui profili social della band britannica tanto da aver lasciato presagire un imminente ritorno che però, francamente, nessuno si si sarebbe aspettato arrivare così presto. Erano anni che la band capitanata da Robert Smith infatti disseminava inediti nei live e, proprio quando la speranza che questi pezzi potessero prendere una loro forma discografica stava iniziando a scemare, lo scorso 1 novembre siamo stati travolti dalla bellezza ineccepibile di un disco che si presenta immediatamente in tutta la sua potenza monolitica, evocativa, mi verrebbe da dire definitiva (la parola “end” del resto compare declinata nella sua varietà semantica in tutti i pezzi, ma su questo punto ci torneremo più avanti).
Con la grazia e la violenza che solo le grandi verità riescono a rivelare, Songs Of A Lost World, come il titolo che porta, è un canto sofferto che celebra le rovine di un mondo antico, lontano, così remoto da non sembrare mai realmente esistito. C’è una malinconia straniante e pervasiva in tutte le otto tracce che compongono la tracklist, che da un lato permette ad ognuno di noi di riconnettersi al proprio personale senso di finitezza e dall’altro conduce in un luogo rarefatto dove la fine sembra imminente ma resta comunque sempre sospesa.
Rolling Stone ha titolato l’articolo di presentazione del disco con la frase “Esorcizzare la fine, cantandola”. Nonostante sia un bel modo di interpretarlo, preferisco leggerlo piuttosto come un espediente poetico di deporre le armi nei confronti del senso stesso di ‘fine’, accettando l’incombere di un tempo tiranno che scorre irrefrenabile con la compostezza di chi ha capito tutto. C’è una rassegnazione quieta, quasi tenera, nelle prime parole che pronuncia Smith nella traccia apripista “Alone” dopo un tappeto strumentale introduttivo di quasi 3 minuti e mezzo: “This is the end of every song that we sing” (citazione tratta da un poema di Ernest Christopher Dowson, ndr) con l’incedere solenne segnato dalla batteria portentosa, dalle chitarre effettate e dalle struggenti note di piano che conducono lentamente a quella sua voce sofferta e vulnerabile, proveniente da un recesso indefinito dell’anima.
Il disco nella sua interezza si compone di brani più o meno memorabili, bisogna essere onesti su questo, ma che nei suoi tasselli dorsali raggiunge vette altissime. Senza scendere nella retorica più spiccia, c’erano veramente pochissime possibilità che questo lavoro non affermasse quello che ci saremmo potuti aspettare dai Cure.
Stratificazioni sonore che attingono alla tavolozza dei mezzi toni per dipingere un quadro di decadenza sublime e rarefatta, da cui spiccano assoli interminabili di chitarre elettriche annodati a bassi nervosi, percussioni sempre portanti e flebili fraseggi di piano imperlati di magnificenza che irrompono inaspettatamente in ogni squarcio che si apre. Ficcanti anche i tenui riverberi di wind chimes che come scintillii luminosi entrano di tanto in tanto per permettere alle ombre più cupe di rivelarsi.
Tra momenti più disturbanti (come l’inquieta “Drone:Nodrone”), ritmi dall’esuberanza funk orchestrale (“A Fragile Thing”) e iridescenze fluttuanti (come “And Nothing Is Forever” che rappresenta forse il momento più luminoso di tutta la tracklist o “I Can Never Say Goodbye” con il superbo sodalizio di chitarre acidulate e piano malinconico), si stacca il trittico sapientemente posto a inizio (con “Alone”) – metà (con la marziale e gotica “Warsong”, piena di echi siouxsiani) – e la fine (con la fine di tutte le fini “Endsong”).
In quest’ultimo pezzo arriva lenta e spietata la catarsi alla quale ci avevano preparato già dai primi accordi. Una liturgia che parte con un’intro strumentale di 6 minuti e si disperde in un canto nichilista sereno e pacifico. La band si prende tutto il suo tempo per allungarla questa fine tanto agognata, noncurante di altro se non di dare forma al pensiero del nulla (“Nothing” è l’ultimo verso cantato da Robert Smith).
C’è chi presagisce ed auspica un imminente nuovo capitolo discografico scaturire da questo disco. Dal mio canto, conscia che sarebbe comunque qualcosa di altrettanto sorprendente, reputo Songs Of A Lost World come un’uscita di scena perfetta, l’epilogo che pone una conclusione programmatica e risolutiva ad una storia che per anni è stata la nostra cura, e sempre lo sarà.
Emotivamente è pugno nello stomaco. Dopo averlo ascoltato a lungo, veniamo travolti dal desiderio fisico di abbracciare qualcuno. O abbracciare Robert Smith e dirgli l’ennesimo grazie immaginario della nostra vita.
This is the end.
Tracklist:
- 1. Alone
- 2. And Nothing Is Forever
- 3. A Fragile Thing
- 4. Warsong
- 5. Drone:Nodrone
- 6. I Can Never Say Goodbye
- 7. All I Ever Am
- 8. Endsong