In occasione della data romana del tour di presentazione del loro ultimo disco ITAMI, uscito a fine marzo (potete recuperare la nostra recensione qui), abbiamo avuto modo di scambiare qualche considerazione insieme alla band bresciana Cara Calma su cosa significhi abbracciare i cambiamenti in un’ottica quasi terapeutica di accettazione e costruzione identitaria. Nel comunicato stampa che ha anticipato l’uscita del disco, la band lo descrive come “simbolo di ciò che siamo stati, di ciò che siamo e di ciò che saremo, per noi che ci troviamo sempre in equilibrio tra sofferenza e speranza”. Incontriamo Riccardo, Fabiano e Cesare per parlarne insieme nel camerino del Traffic poco prima del live, mentre si preparano per quello che sarebbe stato un live incendiario dal quale le nostre ossa si stanno ancora riprendendo.
Allora ragazzi, questa è la penultima data del tour di presentazione di Itami. Poi immagino seguirà comunque un tour estivo, ma intanto la prima tranche è quasi andata: bilanci su questo tour? Come vi è parso che le persone abbiano recepito il disco?
Cesare: Benissimo! È stato figo perché, anche se abbiamo leggermente cambiato la modalità in cui scriviamo le canzoni, o meglio il modo in cui le portiamo verso le persone, comunque abbiamo visto che erano tutti belli gasati.
Fabiano: Lo stavamo dicendo prima; già nella data di Brescia, che era tipo una settimana dopo l’uscita del disco, già tutti sapevano i pezzi e li cantavano fortissimissimo. È stato bello!
A livello di dimensione live è cambiato anche il vostro assetto, nel senso che Gianluca (ex bassista che ha fatto parte della band fin dagli esordi, ndr) non fa più parte della band e questo è il primo disco che esce ufficialmente senza di lui, anche se comunque c’è Simon come turnista che vi accompagna da due annetti ormai, no?
Riccardo: Sì, prima Simon ci faceva da fonico, poi ci ha dato una mano col basso e adesso suona la chitarra perché abbiamo voluto fare questo cambio di formazione in cui io canto e basta.
Esatto. E proprio questo è quello che volevo chiedervi: com’è cambiato il vostro approccio alla dimensione live nell’arco di questi anni? Proprio a livello di percezione.
R: Allora, parlo dal mio punto di vista. È stato molto bello arrivare a questo cambio di formazione di cui parlavamo prima perché io sostanzialmente nasco come chitarrista, anche se fin da ragazzino ci ho sempre cantato sopra alla chitarra. Però non è mai stato il mio primo strumento la voce. Negli anni ho cercato di cantare sempre meglio e perfezionare tutti i miei difetti, ma trovarmi con il microfono in mano per la prima volta senza uno strumento tra le braccia è stato strano. Perché comunque è un po’ anche una sorta di protezione lo strumento a volte, no? Fa un po’ da difesa perché, anche se non stai suonando, comunque hai un qualcosa tra le mani con cui stemperare la tensione. Ad avere solo il microfono devo dire che mi sarei aspettato di trovarmi un po’ più in difficoltà, ma poi inaspettatamente in realtà mi è scattato un click mentale e devo dire che questa cosa mi fa stare veramente da dio. Mi sento proprio bene!
F: E lo notiamo anche noi, assolutamente!
R: È bello e non ho mai vissuto il rapporto col pubblico durante il live in maniera così intima come lo sto vivendo ora.
C: È stata una soluzione che in realtà si è rivelata praticamente un valore aggiunto più che una “perdita”.
R: Cioè l’obiettivo primario per noi è sempre quello di portare un live che sia di qualità, perché siamo dei perfezionisti del cazzo. Quindi se ci fossimo accorti che qualcosa non stava uscendo in maniera corretta e del livello qualitativo a cui intendiamo arrivare, non l’avremmo fatta. La qualità cerchiamo e crediamo di averla mantenuta; abbiamo solo cercato di avvicinarci un po’ di più alla gente perché poi alla fine viviamo del rapporto con le persone che vengono a sentirci. Quindi sì, è un valore aggiunto magari per il live ma anche per noi stessi.
F: Da parte mia e di Ce non è cambiato molto, però vedendola sia da dentro che da fuori notiamo che la differenza c’è ed è tanta. Proprio come band ci sentiamo che riusciamo a coinvolgere di più.
C: E poi così si riesce anche a fermare meglio l’attenzione delle persone che sono più coinvolte, ma anche proprio più attente al concerto.
Ok, abbiamo parlato dei cambiamenti, ma c’è invece un momento che potreste definire irrinunciabile a livello di costante per la band da sempre nella parte pre-, post- o anche durante il live?
F: Per me ce ne sono almeno un paio.
C: Prima ce n’è sempre uno, che è una specie di sghiribizzo o rito scaramantico che abbiamo e ci mettiamo in cerchio tutti quanti con la Vale (Valentina Bobbi Cipriani – fotografa ufficiale della band, ndr), con Bacco (Alessandro Baccoli – il loro tour manager, ndr) e con chi c’è con noi in furgone di solito. Mettiamo le mani in mezzo e facciamo una specie di urlo.
F: Ma non diciamo il classico “merda merda merda”, bensì “Big Bang Baccoli”. È una cosa che c’è da quando Bacco ha cominciato a lavorare con noi.
R: Sì sì, quello è il nostro momento! Poi durante il live ci sono tanti momenti, ma la maggior parte li improvvisiamo di volta in volta. Però i nostri momenti secondo me sono tanto a livello di band come famiglia e riguardano più che altro la fase di preparazione, perché comunque quello è un momento molto importante. Sembra una frase del cazzo, però comunque salire sul parco vuol dire davvero mettersi a nudo, no? Quindi c’è tutto quello che viene prima e ci permette di arrivare sul palco in maniera super serena. Quindi quello che viene prima secondo me è la parte più importante e irrinunciabile.
Insieme: Il pirlo (ridiamo).
F: E dopo il live invece il gin tonic. No, scherzo. Dipende dalla serata (ridiamo ancora).
Torniamo a Itami. Come avete dichiarato, è una parola legata alla cultura giapponese che indica la sofferenza su vari livelli: fisico, emotivo e psicologico. La scrittura del disco immagino sia stata molto lunga perché i primi pezzi sono usciti un annetto fa ormai. Quando è stato il momento in cui avete capito che ‘itami’ sarebbe stato il collante a tenere uniti i pezzi e perché?
C: In realtà per ogni disco che abbiamo fatto la scrittura è stata diversa, nel senso che il primo disco l’abbiamo scritto praticamente tutto in sala prove e senza mai approcciarci al computer; il secondo un po’ a metà e metà; il terzo invece completamente al computer perché di mezzo c’è stata anche la menata del covid. Questo è stato ancora diverso perché abbiamo scritto quei tre pezzi totalmente di botto e poi siamo andati un pochino più lentamente. Solo ad un certo punto abbiamo deciso di raggrupparli tutti sotto il tema principale che era quello della tua domanda. Secondo me l’abbiamo capito poi, rileggendo i testi e riascoltando la musica, cosa volevamo dire. In più c’è il fatto che abbiamo scelto una parola giapponese perché avevamo, almeno io che mi occupo del reparto grafico, già un concept che era quello di fare tutto in stile anime e quindi la parola giapponese diciamo che l’abbiamo trovata anche in relazione a questa cosa qui.
E a proposito di copertina: come ci sei arrivato alla copertina con il gatto?
C: Non lo so in realtà, devo essere onesto. Per quanto riguarda lo stile è perché sono proprio infottato di anime da quando sono piccolo, però non so disegnare e allora mi sono avvicinato a questo mondo del 3D. Alla fine sono riuscito a fare un po’ di cose.
F: In realtà siamo abbastanza tutti dei gattari e quindi a me personalmente piace molto l’idea che ci sia un gatto sulla copertina.
(Da buona gattara io stessa quale sono, a questo punto si apre una bella chiacchierata sui nostri rispettivi gatti con conseguente fiera rassegna delle foto dei nostri pelosetti in galleria)
Questo disco esce autoprodotto. Normalmente quando ci sono di mezzo produzioni di persone conosciute nell’ambito musicale viene chiesto come è stato lavorarae con loro. Come vi sarà sicuramente successo per quanto riguarda Karim (QQru degli Zen Circus, ndr) e Divi (Davide Autelitano dei Ministri, ndr). In questo caso invece vi chiedo: come è stato lavorare con voi stessi?
R: Una scoperta sicuramente! Nel senso che noi abbiamo fatto appunto i dischi precedenti con dei produttori: i primi due con Karim e l’altro con Divi. Allora, da una parte è più facile lavorare con un produttore, non tanto per l’idea che magari può darti, ma perché in qualche modo è una figura che funge quasi da psicologo per la band, nel senso che è il primo a darti forza e dirti che quello che gli stai proponendo è una bella idea. Se invece ti trovi a lavorare da solo, puoi solamente rapportarti con te stesso e non hai nessuno dietro che ti dica “Raga, questo pezzo spacca! Proviamo a portarlo di qua piuttosto che di là. Sistemiamo qualcosa qui”. Quindi è stato un lavoro completamente differente rispetto a quello che avevamo fatto di solito. Però c’è da dire che è il primo lavoro che davvero facciamo totalmente con le nostre mani, senza nessuna influenza esterna.
F: Tra l’altro, secondo me, prima di quei tre dischi venivamo comunque già da tanti anni in cui facevamo comunque musica nostra, quindi non dico che eravamo già preparati sulla scrittura dei dischi ma ci hanno aiutato mentalmente a tirarlo fuori, come dei mental coach in un certo senso. Il passo successivo è stato semplicemente liberarci a livello mentale del dover “dipendere” da un produttore.
C: Ma in generale bisogna comunque ammettere e ne siamo consapevoli, non c’è niente trascendentale in questo, che all’inizio eravamo un pochino derivativi.
R: Sì, ci scambiavano per i Duran Duran (ridiamo).
Io avrei detto gli Slip Knot.
C: Ahah, anche. Però, anche all’inizio, i pezzi che abbiamo portato non sono mai stati totalmente stravolti rispetto a com’erano. Ecco perché comunque loro dicevano che principalmente quello che è cambiato è stato l’aspetto mentale.
R: Sì, i nostri pezzi non arrivano mai al punto in cui si comincia a lavorare con un produttore che sono solo chitarra e voce. Cioè sono già dei pezzi che hanno un senso; sono già arrangiati con le chitarre elettriche, con la batteria, con le chitarre soliste, e anche ben registrati perché abbiamo la fortuna che Cesare ha lo studio (il Glotoneria Studio di Montichiari, ndr). Quindi i nostri pezzi Non sono mai chitarra-voce e produttore-fai-qualcosa.
Allora, a proposito di scrittura, io ritengo che comunque ci sia un filo conduttore che accompagna tutti e quattro i dischi, ed è questa tensione costante tra il bisogno anche nichilista di autosabotarsi e il venire a patti con questa necessità. Siete d’accordo? Cioè la ritenete questa una cifra tematica della vostra produzione?
R: Sì, assolutamente. Il fatto di autosabotarci sicuramente è una tendenza che abbiamo da sempre, anche se siamo maturati in questi anni; abbiamo fatto una sorta di analisi interiore e abbiamo visto che sicuramente ci sono un sacco di problemi, ma venire a patti con noi stessi vuol dire anche fare pace con i nostri demoni, o anche se non si tratta di veri e propri demoni comunque con le nostre problematiche, e capire che sono uno spunto per poter fare meglio piuttosto che scavare ancora più a fondo del fondo. Ripartire in qualche modo è cercare di trovare lo slancio per tirar fuori la testa. Però sicuramente questo è un tema costante nei nostri pezzi, hai ragione. Poi ci sono anche pezzi un po’ più leggeri, però ciò di cui abbiamo bisogno di parlare quasi fosse una sorta di terapia nostra è proprio quello che dici.
La musica che fate è sicuramente molto generazionale, nel senso che il vostro pubblico è principalmente della nostra fascia d’età più o meno. Essere una fotografia che parla a noi è per voi un limite o una condizione?
R: Tutte e due. Sicuramente è una condizione, ma è anche un limite perché comunque si fa sempre un po’ fatica ad aprirsi ad un pubblico che faccia parte di un’altra generazione. Però è anche vero che, secondo me, se fai musica e lo fai davvero credendoci con il cuore e quant’altro, la prima cosa che devi tenere a mente è essere credibile e sincero.
C: Sì, essere credibili è importantissimo! È la cosa fondamentale, secondo me perché a un certo punto se cerchi di snaturarti, non ti senti a tuo agio e fai solo delle stronzate e basta.
Brescia (che pronuncio impietosamente con la ‘e’ aperta molto poco settentrionale) fa sempre parte, anche in maniera sotterranea, di tutti i vostri album anche quando non la citate esplicitamente. Chi viene dalla provincia lo sa bene: c’è sempre un rapporto di amore e odio con il proprio contesto d’estrazione. Come vi definisce Brescia?
F: Beh a Brescia (la ‘e’ chiusissima, manco a dirlo) ci siamo cresciuti. E ci sarà sempre in noi quel mix di voglia di scappare e voglia di tornare, anche quando siamo in giro per l’Italia a suonare.
R: Anche quando capita di suonare lontano e fare trasferte di più giorni, poi comunque l’odio che provi nei confronti magari di una situazione in cui ti sei trovato da ragazzino e avresti voluto fosse differente scompare nel momento stesso in cui arrivi a casa. In maniera quasi incosciente ti rendi conto del legame forte che c’è.
C: Beh perché è come una comfort zone, letale e accattivante.
Ultima domanda. Una cosa che mi ha fatto tanto sorridere quando è uscito il disco è che spesso vi chiedevano perché non ci sono feat in questo album, visto che sono sempre stati un po’ una vostra costante. Va bene anche così, insomma. Quindi non vi chiederò questo, ma vi chiedo invece se ci sono dei pezzi che vorreste coverizzare/riarrangiare o in sede live oppure anche incidendoli?
F: A me sarebbe sempre piaciuto fare una cover sia live o anche registrarla, però ho sempre avuto un po’ di resistenza.
C: Ma che canzone?
F: No no, in generale. L’idea di portare una cover live a me non dispiacerebbe onestamente.
R: Io non ci ho mai troppo pensato in realtà. Rifare magari una canzone che mi piace, sì sarebbe interessante, ma il problema è che le canzoni che vorrei rifare non hanno bisogno di essere rifatte (ridono). No, nel senso non è che mi piacerebbe fare una canzone che magari è lontanissima dal genere che facciamo, quindi non vorrei snaturarla. A questo punto, mi piacerebbe magari suonare un pezzo e sarebbe una cover punto e basta.
C: Ma sai cosa? Secondo me da ragazzino hai proprio il sogno di salire su un palco e suonare i pezzi che ami di più; ma adesso che abbiamo i nostri pezzi da suonare, non sento la necessità di farne altri. Però magari serve solo forse il pezzo giusto. Sì, non lo so, è una cosa a cui non ho mai pensato.
R: E poi tutti quanti all’inizio comunque abbiamo suonato talmente tante cover per imparare che forse boh un po’ ci si stanca a farle. Ma chissà.
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Ci salutiamo abbracciandoci. Non capita spesso di intervistare persone alle quale si vuole un bene vero ed è stato molto bello. Grazie gnari!
foto in copertina: Valentina Bobbi Cipriani