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Rock È – Intervista a Il Teatro Degli Orrori (e live report – Roma, 12.03)

Ci sono gruppi essenziali nella storia della musica che hanno avuto il merito di aver ridisegnato i connotati del genere nel quale si inseriscono, talvolta anche loro malgrado, e stravolto le sensibilità di tutta una generazione di musicisti e ascoltatori che proprio da quel punto zero ha iniziato a costruire la propria identità musicale. Sono quei gruppi che non si sciolgono mai realmente del tutto, anche quando si dicono addio, e anzi restano immutabilmente cristallizzati come un monolite nei cuori di chi la loro musica non solo l’ha amata, ma l’ha vissuta nel profondo.

 Il Teatro Degli Orrori è uno di quei gruppi e, mi sento di dirlo in maniera abbastanza impavida, lo sarà sempre.

Quando qualche mese fa era uscita la notizia della reunion della band dopo ben dieci anni dall’ultimo disco omonimo che aveva segnato il loro commiato dalle scene non nego di aver provato sensazioni contrastanti. Pierpaolo Capovilla (voce), Giulio Ragno Favero (basso), Gionata Mirai (chitarra) e Francesco Valente (batteria) sullo stesso palco. Di nuovo. Ero sorpresa, felice, impaziente di rivederli insieme; ma avevo anche un timido timore che potesse incrinarsi qualcosa nel percorso, non tanto per mancanza di fiducia nei loro riguardi, piuttosto per quella strana ansia anticipatoria che spesso si presenta quando sta per succedere qualcosa che ci si aspettava da tanto.

E invece eccomi qui, di ritorno da uno dei concerti più potenti e impattanti ai quali abbia assistito da un po’ di tempo a questa parte.

Scrivo questo live report a caldo, nel cuore della notte, grata dello spettacolo a cui ho assistito, con le sensazioni vive che ancora pulsano sotto la pelle. Non c’è stato nessun effetto nostalgia stasera, lo spettacolo è stato incredibilmente presente per tutta la durata del concerto con un interscambio mutuale di voglia (e bisogno) di farsi travolgere, band e pubblico,  dall’impeto e da una catarsi osmotica di amplessi iridescenti.

Due ore piene che sono volate via veloci, sparate come un missile nelle nostre orecchie e nelle nostre coscienze. La scaletta, che ha abbracciato grosso modo tutta la loro discografia, è stata eseguita in maniera solida e consapevole, con implacabile lucidità, sul palco dell’Atlantico che li accoglie tra luci rosse, o talvolta blu, spesso puntate da dietro, lasciando le sagome dei musicisti stagliarsi oscure nel loro impero delle tenebre.

“Vita mia”, “E lei venne”, “La canzone di Tom”, “Direzioni diverse”, “Non vedo l’ora”, “Majakovskij”, “Due”, “È colpa mia”, “Io cerco te”, “Il lungo sonno (Lettera aperta al Partito Democratico)”, “Compagna Teresa”, A sangue freddo” , “Mai Dire Mai” (da cui, giustamente, prende il titolo questo tour che li ha fatti ritrovare): sono solo alcuni dei capitoli di una pièce teatrale orrifica, poetica ma anche squisitamente perturbante, nel senso più autentico del termine, dalla quale si esce stravolti. Un live che, infine, parla di Amore perché in fondo “tutte le canzoni parlano d’amore anche se parlano di altro”.

Tra la narrazione musicale, come da prassi, trovano spazio le sempre interessanti e pertinenti riflessioni di Pierpaolo che rivendicano la fratellanza dei popoli, la lotta sociale e il risveglio di un’onestà intellettuale che guardi con meraviglia alla speranza del futuro.

Ci salutano dicendoci “goodbye, che in inglese non è solo un modo per dirsi addio ma anche arrivederci”. E allora che sia.

***

Riporto qui di seguito una bella chiacchierata che abbiamo scambiato qualche giorno fa insieme a Pierpaolo e Giulio in vista della data romana.

Buona lettura.

 

Ciao! Cercherò di farvi domande che non vi siano già state fatte, senza cadere nella tentazione di imbattermi nella retorica più spiccia. Partirò quindi dalla più semplice, e allo stesso tempo più difficile, delle domande: chi sono Il Teatro degli Orrori oggi, AD 2025?

Pierpaolo Capovilla: Siamo un gruppo di musicisti, innamorati del rock più sanguigno e massimalista, che hanno repentinamente deciso di metter da parte le incomprensioni reciproche e di ritrovarsi a suonare dal vivo la propria musica.

Giulio Ragno Favero: Siamo sempre gli stessi di 10 anni fa, e per come è giusto che sia, siamo anche molto diversi. Sicuramente sono sempre lo stesso gruppo, forse siamo maturati, invecchiando inesorabilmente, e di conseguenza abbiamo più coscienza dei nostri limiti e delle nostre capacità, e sappiamo gestire le nostre energie in modo diverso, più efficace.

 

– Da che punto della sintassi avete recuperato il discorso interrotto 10 anni fa?

Pierpaolo Capovilla: Abbiamo dovuto ripensare i sintagmi stessi del nostro operato: chi siamo, cosa stiamo facendo, dove vogliamo andare? Niente di più difficile, o di più facile!, dopo ben dieci anni di inattività. Stiamo scoprendo che siamo ancora un gruppo, sappiamo suonare le nostre canzoni, e di canzoni, a Dio piacendo, ne scriveremo di nuove.

 

– Ormai siete quasi alla fine di questo tour, com’è stato il vostro ri-debutto live dopo lo iato?

Pierpaolo Capovilla: Riprendere a suonare insieme dopo una così lunga interruzione non è stato difficile, è bastato decidere di farlo. Suonare dal vivo ci avvince ancora, e questa è la cosa più importante, perché il palcoscenico è un momento di vita finalmente vera, senza se e senza ma.

Giulio Ragno Favero: sta andando molto bene, il pubblico ogni sera ci regala un affetto veramente smisurato. C’è questa strana sensazione, che permea tutto, di “ritrovamento” e una sorta di sensazione speranza in non si sa bene cosa che avvolge noi e il pubblico. Direi che è gratificante esser di nuovo in pista, rigenerante.

 

– Quali canzoni vi era mancato di più performare live come band?

Pierpaolo Capovilla: Parlo per me: “È Colpa Mia”. È una canzone che racconta quel che siamo diventati: più poveri, più tristi e meno intelligenti. È ciò che ci raccontano i tempi che stiamo vivendo: siamo tutte e tutti più insicuri di prima, viviamo nell’incertezza, siamo infelici, arrabbiati e impotenti, e siamo anche diventati incapaci di comprendere le circostanze storiche che ci hanno portato fino a qui, alla resa nei confronti del sistema di cose in cui siamo intrappolati.

Giulio Ragno Favero: Non credo abbiamo delle preferenze. Sicuramente ci son dei brani che ci stimolano molto, come “Lezione di Musica” o “Il Terzo Mondo”, che parlano di cose lontanissime ma che sentiamo presenti come quando le abbiamo scritte. “Maria Maddalena” sicuramente è anche una di queste, così come lo sono “Majakovskij” o “Il Lungo Sonno”.

 

– Ho apprezzato molto la schiettezza con cui avete annunciato questo tour di reunion come una proposta difficile da rinunciare (anche a livello economico), senza romanticizzare troppo quello che vi aveva spinti verso questa decisione. Quanta apprensione c’era che potesse non andare bene?

Pierpaolo Capovilla: Nessuna.

Giulio Ragno Favero: Beh, non è mica finito!!! (ride) Sinceramente apprensione che potesse andare male non molta, semmai eravamo un po sulle spine per via del fatto che dopo 10 anni non sai bene dove sei tu, e se sei ancora in grado di fare il lavoro che facevi. Abbiamo lavorato molto, sia dal lato tecnico con una squadra meravigliosa, che dal lato artistico per far si che il concerto sia qualcosa che difficilmente dimenticherai, o che cmq ti lasci addosso una sensazione utile, e non solo di intrattenimento, e dalla risposta della gente, direi che abbiamo fatto centro. E per noi è il guadagno più grande di tutti.

 

– Nell’estate del 2015 vi ho visti live l’ultima volta e non vi nego che non vedo l’ora di rivedervi tra qualche giorno (sarò a Roma). Quando avete fatto il vostro ultimo concerto nel 2015 avevate la consapevolezza che sarebbe stato l’ultimo?

Pierpaolo Capovilla: Beh… No. È la vita, non sai mai cosa ti porta, né dove ti spinge.

Giulio Ragno Favero: l’ultimo concerto di quel tour risale al 2016, settembre mi pare, e in nessun modo potevamo immaginare quel che sarebbe successo dopo. Le relazioni tra esseri umani son difficili in qualsiasi ambito, amoroso, lavorativo, ecc. E spesso si lotta per le proprie posizioni, convinti che siano le migliori possibili, quando in realtà siamo in continuo mutamento, e nulla del domani è scritto.

 

– Mettendo insieme alcune delle considerazioni che avete fatto su quello che significa il rock per voi, sono arrivata a ricavare queste definizioni: il rock è politica; il rock è religione; il rock è popolare; il rock è consapevolezza. Vi ci ritrovate? E in che modo in ognuno di questi aggettivi?

Pierpaolo Capovilla: Personalmente mi ci ritrovo eccome. Tutto è politica, anche la canzone, non potrebbe essere altrimenti. Anche Sferaebbasta fa politica, anche se non gliene frega niente, e proprio per questo fa pessima politica, la peggiore, quella basata sul più piatto conformismo, sulla moda del momento, sui dati di vendita, sul consenso plebeo, del tutto incurante delle conseguenze sociali; a gente così, neanche una strage in discoteca induce ripensamenti. Religione, perché fare musica è un atto di fede in se stessi e nel consorzio umano. Popolare, perché la musica cha facciamo, e le parole in essa contenute, nascono in seno alla società in cui viviamo, per essa e con essa. Consapevolezza, perché la canzone deve arricchire intellettualmente chi l’ascolta, altrimenti non serve a niente.

Giulio Ragno Favero: Io direi che mi ritrovo in quasi tutte, a parte quello della religione, che è un ambito che non mi tange, perchè sono ateo fino all’ultimo atomo. Forse sono Fedele solo alla mia arte, o alla dedizione che ho per lei. Però dal mio punto di vista questo approccio lo applico a qualsiasi forma di espressione venga messa in opera, sia essa uno scritto, una musica per un film o per un’opera teatrale. Sono dedito al mio lavoro, e lo amo tanto da dedicargli il più tempo possibile. E in questo tempo che scorre, si intrecciano politica, consapevolezza e tutte le altre cose che hai citato qui sopra. Forse il termine Rock lo vedo come un attitudine… poi però mi fa anche un po impressione come parola, perchè mi ricorda il Celentano della Rai che diceva “Se fai questo o quello, non sei Rock”…come si dice oggi? Cringe? ecco…

 

– Vi hanno chiesto se avete in programma di fare uscire nuovi dischi e avete risposto lasciando aperto qualsiasi spiraglio, quindi non vi chiederò questo. Quello che vi chiedo invece è: avete scritto cose in questi 10 anni che vi hanno fatto pensare “questo sarebbe stato perfetto per Il Teatro degli Orrori”?

Pierpaolo Capovilla: Credo proprio di si. Ma non ci siamo più confrontati, per anni. Nel frattempo abbiamo fatto altre cose, intrapreso direzioni diverse, ma… come si chiama questo tour?

Giulio Ragno Favero: abbiamo tutti lavorato a cose diversissime, che sconfinano in altri ambiti. Personalmente ho del materiale che si, sarebbe perfetto per il teatro, ma che è stato scritto per il TEATRO, quello col proscenio e il sipario. Non ti nascondo che un mio grande sogno sarebbe proprio scrivere assieme a un drammaturgo e al gruppo uno spettacolo teatrale. La cosa mi stimolerebbe molto più di un disco, e penso anche che saremmo in grado di riuscirci.

 

– Dalle foto dei live, vedo ovviamente gente che vedevo ai vostri concerti 10-20 anni fa. Ho letto da qualche parte che avete riunito la vostra tribù rock sotto il palco. Mi ha colpito vedere tra il pubblico anche gente nuova, però, che era troppo giovane 10 anni fa e vi ha scoperti in questo lasso di tempo. Questo mi fa ben sperare sul fatto che le nuove generazioni abbiano curiosità di approcciarsi verso un tipo di musica, passatemi il termine, “anacronistica” se si considera la produzione musicale odierna incentrata sulla fruizione veloce e ammiccante. Non trovate?

Pierpaolo Capovilla: E si, ce ne siamo accorti anche noi, e con che gioia: ci sono molti giovani, anche giovanissimi, e questo ci fa ben sperare. La nostra musica è “anacronistica” nella misura in cui non si rispecchia nel “cronos” dell’oggi, non si adegua, non si arrende, non si fa complice di un mercato musicale in cui non si riconosce, perché non può riconoscersi in esso. La quasi totalità della musica d’oggigiorno è spazzatura. Le nostre canzoni non sono fatte di plastica, ma di idee, e con le idee non c’è ‘talent’ che conti, non c’è gara, non c’è competizione: c’è, invece, voglia di contribuire al mutamento culturale, politico e sociale, dell’orizzonte ideologico in cui sono costrette le nostre esistenze.

Giulio Ragno Favero: Siamo contentissimi di avere entrambi, e personalmente son felice di vedere dei ragazzi giovani. Lo trovo galvanizzante e spero lo sia altrettanto. Per quanto riguarda genere e fruizione, dall’alto dei miei 50 anni posso dirti che non me ne frega un cazzo se la nostra proposta sia anacronistica, e me ne frega ancora meno che la produzione musicale attuale sia piegata al mercato e alla tipologia di distribuzione massificata e oserei dire umiliante, a cui tutti ormai hanno aderito. Io sotto al palco vedo gente che piange, che ride, che riflette e che poga… non mi sembra che il nostro concerto sia anacronistico, anzi, mi sembra quasi più interessante degli altri. PErò per carità, che siamo vecchi lo so, ma che la nostra musica sia “rotta” non mi pare… è sotto gli occhi di tutti una piccola rinascita della musica suonata, e anche con una certa attitudine. Confido che le nuove generazioni si stancheranno dei giocattolini luminosi, e si lasceranno rapire dal rumore. Io quando ascolto, ascolto di tutto, e adoro andare a concerti di musica classica…Se dovessimo applicare il pensiero che c’è dietro alla domanda che ci hai fatto, allora anche suonare Bach o Ligeti dovrebbe essser fuori moda… e forse un po lo è, ma quel che è certo è che la gente li ascolta ancora. Stiamo sopravvalutando questo periodo storico di “preistoria digitale”, le cose cambieranno molto nei prossimi decenni.

 

– La chiudo così: che responsabilità vi sentite di avere nel discorso sullo stato della scena underground in Italia con questa reunion?

Pierpaolo Capovilla: Io penso che la re-union de Il Teatro degli Orrori non possa che portare un po’ di conflitto in un momento storico contraddistinto dal più incosciente conformismo. Perché è nel conflitto che fiorisce il progresso, non nell’adeguamento all’esistente.

Giulio Ragno Favero: Nessuna. Non abbiamo mai fatto parte di nessuna scena, e non credo accadrà in futuro. L’underground è fatto di persone, e non di modalità o di proiezioni. E questa idea di strano “cappello” sopra a determinati generi o tipologie di approcci alla musica, mi è sempre sembrata una cosa retorica, e anche un po’ falsa. Io spero che magari qualcuno che non ci ha visto mai suonare, e ci veda oggi, percepisca un’alternativa, e che la maturi dentro di se, perchè anche se non sembra, siamo ancora liberi di pensare e fare qualsiasi cosa in ambito artistico, e non siamo per  forza schiavi di quello che c’è già. Il futuro è tutto da scrivere.

 

Di nuovo, vi ringrazio immensamente. Ha un valore incredibile quest’intervista per me. Ci vediamo sottopalco.

Pierpaolo Capovilla: Ma grazie a te. Intervista intelligente, e affettuosa. Ci inorgoglisci.

Giulio Ragno Favero: Grazie a te. Portati i tappi.

 

 

 

Immagine che rappresenta l'autore: Francesca Mastracci

Autore:

Francesca Mastracci