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Di ispirazione e giochi d’infanzia: intervista ai The Murder Capital

Da fan, quando è uscita la notizia che ad aprire il concerto di Nick Cave in Italia sarebbero stati i Murder Capital ne sono stata molto felice, non lo nego. Avevo già da tempo preso il biglietto per la messa di Re Inchiostro (in tour per promuovere il suo ultimo disco con i Bad Seeds, Wild God) e sapere che l’opening act sarebbe stato affidato a questa prodigiosa band di Dublino (i Fontaines D.C. possiamo serenamente metterli da parte per una volta) mi aveva resa ancora più entusiasta. Non soltanto perché avevo già avuto modo di apprezzarli live, venendo letteralmente catturata dal gioco ipnotico dei loro giri di basso, dai riff abrasivi di chitarra, da quelle ritmiche così penetranti che si fondevano benissimo con il magnetismo incontestato di James McGovern alla voce. Ma anche perché, a mio avviso, i Murder Capital hanno molto da raccontare ed un modo estremamente  personale per esprimere un’inquietudine che, banalizzandola, viene spesso definita “post-punk”. Così, quando ci è stata data l’opportunità di intervistarli prima della tappa milanese, abbiamo immediatamente colto l’occasione per immergerci con loro in un dialogo da cui è emersa tutta la profondità di animi malinconici e gentili, quali si sono dimostrati essere James McGovern e Gabriel Pascal Blake (rispettivamente voce e basso della band, ndr). Con sguardo attento a scrutarci vicendevolmente e con un’onestà emotiva ricettiva all’incontro, abbiamo scambiato qualche considerazione.

Ciao ragazzi, intanto grazie per questa intervista. Non posso negarvi di essere una vostra fan d’annata.

Grazie a te, ne siamo felici.

L’ultima volta che vi ho visti live in Italia è stato nel 2023 ad un festival post-punk a Rimini, aprivate agli Idles.

Gabriel: Ah, sì ci ricordiamo di quella data! È stato molto bello.

Lo scenario era molto romantico in effetti, al tramonto, sulla spiaggia, c’era il pubblico con le birre in mano che si ammassava sotto il palco a ritmo delle vostre sonorità deflagranti. Stasera vi rivedrò in un’arena in apertura a..beh Dio.

James: Ahahhah sì, ogni sera dipingiamo le porte del paradiso mentre lui è, come dire, seduto sul trono. (ridiamo tutti)

G: ahahh sì, beh, è totalmente folle. Incredibile! In generale non è che abbiamo fatto moltissime aperture come gruppo spalla, ma siamo stati sempre molto fortunati ogni volta che è successo. Il calibro è altissimo.

J: Nick Cave è un vero eroe per noi, quindi sono settimane molto significative, assolutamente. Anche solo poterlo vedere esibirsi con i Bad Seeds o fare il soundcheck. Purtroppo il loro bassista (Martyn Casey, fermo per problemi di salute, ndr) non sta bene per il tour, ma vedere Colin Greenwood (dei Radiohead, ndr) che lo sostituisce è stato ugualmente molto bello. Riceviamo un sacco di stimoli da ogni parte tutte le sere.

Infatti sono molto curiosa di vedere Colin sul palco con i Bad Seeds stasera.

G: Sì, esatto. È davvero interessante vedere quanto sia minimale il set-up di Colin. È letteralmente il suo basso, una cassa, una testata e un accordatore. Tipo, ha solo un fottuto accordatore; l’intero spettacolo è solo lui che suona il basso e il resto sono i suoni che riesce a tirare fuori. Non ha bisogno di altro. È assolutamente un’ottima occasione per me vederlo sul palco.

Certo, posso immaginare!

Sin dal vostro esordio nel 2019 (con When I Have Fears, ndr), avete modellato una voce distintiva all’interno della scena, passatemi il termine, post-punk, anche se in realtà questa etichetta non vi calza a pennello poiché in qualche modo il vostro sound ha sempre travalicato le definizioni. Quando vi siete resi conto che stavate diventando qualcosa di inconfondibilmente importante?

J: Onestamente, forse ancora dobbiamo rendercene conto. Io forse sto ancora aspettando di rendermene conto. Non lo so, cerco comunque di non pensarci troppo, ma capisco la tua domanda. Tipo, quando ci è venuto in mente che quello che facevamo era qualcosa di sostanziale o qualcosa che, sì, sarebbe durato. Ti capisco. Penso che sia una consapevolezza in divenire; si accumulano sempre momenti lungo il percorso. Come piantare piccole bandierine nella sabbia ad ogni traguardo che ti fanno sentire degno di esserti guadagnato qualcosa. Ti fanno sentire che in qualche modo ti sei meritato il tuo spazio.

Sai, quando vieni gettato in una scena, che sia la scena irlandese o post-punk o qualsiasi cosa, cerchi semplicemente di fare quello che sai fare. Il post-punk sembra un’idea restrittiva ora. Non so quanto abbiamo mantenuto questa etichetta per il nostro secondo album (Gigi’s Recovery del 2023, ndr). Però, per risponderti, credo che io abbia avuto chiara l’idea che questo progetto sarebbe diventato qualcosa di importante già da quando abbiamo suonato insieme su un palco per la prima volta.

Questo è molto bello!

G: La nostra intenzione è sempre stata la stessa fin da subito, anche nei primissimi tempi, proprio perché siamo sempre stati molto solidi nel voler evadere dalle trappole di ogni tipo. Abbiamo investito tutte le nostre intenzioni nel fatto che volevamo dedicare completamente le nostre vite ad essere musicisti, essere in questa band. Quindi questo desiderio è stato probabilmente il momento più importante. Ma ovviamente anche questa costante per continuare ad esistere deve rinnovarsi nel corso degli anni.

Giorno dopo giorno.

G: Sì, esattamente. Come avere un dialogo costante alla base della comunicazione con le nostre rispettive intenzioni. La questione post-punk è interessante perché, tipo, se me l’avessi chiesto quando stavamo iniziando o appena dopo aver pubblicato il secondo disco, ti avrei detto che non mi sarebbe piaciuto davvero molto perché non volevamo essere conosciuti solo come rappresentanti di quel genere. Ma ora che continuiamo a essere etichettati così, in realtà questo mi eccita perché se siamo una band post-punk, allora stiamo anche definendo cosa sarà quel genere per il futuro. E tipo, è come se questo rientrasse in una conversazione più ampia di noi.

J: Forse bisognerebbe rinominarlo post post post-punk. O qualcosa del genere. (ride)

Tipo Post-punk 2.0 (ridiamo tutti)

J: Esatto. O semplicemente va bene anche chiamarla musica rock e basta.

Che comunque non sarebbe una cattiva idea. La semplicità a volte è la cosa migliore.

J-G: sì, è vero.

Una cosa che amo molto dei vostri testi (ma penso che questo valga anche per il sound) è che non sembra mai voler prendere la strada più facile.

J: Puoi dirlo forte! (sorride)

Esatto, mi piace molto il modo che avete di mettete insieme le parole. Penso che questo arrivi al cuore delle persone, creando una connessione in modi inaspettati, perché non siete mai troppo banali e diretti nella scelta di quello che volete delineare. Come vi arriva questa propulsione alla creatività, da dove viene?

J: Grazie. È difficile, non ne sono troppo sicuro.

G: Abbiamo sicuramente imparato nel corso degli anni a semplificarlo. Per l’ultimo disco, abbiamo lavorato sulla scrittura tipo due settimane alla volta nei posti in cui vivevamo. Abbiamo avuto dei periodi di scrittura a Donegal, Dublino, Londra, Berlino e a Los Angeles quando siamo andati lì per finirlo. Quando ho iniziato come artista o anche quando ero un adolescente, pensavo che l’ispirazione fosse qualcosa che dovesse arrivarmi ad un certo punto. Ma ora sostanzialmente ho imparato che magari può accadere, forse anche di più, se ti trovi in un ambiente che ti rende ricettivo ad accogliere gli stimoli. Tipo, questo è quello che sta succedendo. A volte abbiamo due idee completamente diverse dalla mattina alla sera rispetto a quello che vogliamo fare o nessuno ha una vera e propria idea di come una canzone può svilupparsi prima di iniziare a lavorarci su. Poi sulla base delle sensazioni che stiamo vivendo inseme succede qualcosa ed è su quello che lavoriamo.

Tipo brainstorming o cose così.

G: Non troppo, in realtà. A volte non parliamo neanche, ci ascoltiamo e basta. Quindi, penso, sì, ora abbiamo imparato a concentrarci un po’ di più sulla creazione che sull’ispirazione. Ma se tutti, se noi cinque decidessimo di non entrare mai più in una stanza insieme, non saremmo in grado di non creare. Ha senso? Non per dire un super cliché, ma è un po’ come respirare. È qualcosa che dobbiamo fare.

Certo, capisco.

J: Scusa, vorrei tornare un momento all’inizio della tua domanda. Penso che scrivere per me sia… Può essere come una disperazione, a volte.

Che splendida definizione!

J: Tipo, non so davvero da dove venga questo desiderio se non dalla sensazione o dalla spinta che si ha da bambini ad essere curiosi verso il mondo. Penso che questa sia l’unica comprensione consolidata che posso avere del perché ci si siede a scrivere; cercare di mantenere quella sensazione.

Bello. Sì. A proposito di questa cosa dell’infanzia, sto pensando all’ultima canzone che avete pubblicato, “Can’t Pretend To Know”, che un po’ ripercorre l’innocenza infantile nel cercare di capire cosa è finzione e cosa non lo è nel gioco delle parti che mette in scena la società. Chi è è l’artefice del disegno coi pastelli in copertina?

J: Viktor H. È un artista e designer svedese e di fatto mio caro amico.

Oh, ok. Non pensavo fosse un’opera d’arte; credevo fosse stato realizzato da qualcuno di voi quando era bambino.

G: Ah sì immaginavo! È stato sicuramente molto sorprendente quando Viktor ha iniziato ad occuparsi della direzione creativa per l’artwork del disco. Ed è un artista favoloso ed incredibilmente in gamba. Quando ce l’ha mostrato la prima volta, eravamo tipo fuori di testa. Era un contrasto davvero penetrante, e quella era esattamente l’emozione che intendevamo evocare.

Amo quando gli artisti usano un momento, per la copertina di un album o di un singolo, che in realtà si presenta come qualcosa senza troppe pretese o comunque non eccessivamente pensato. Oggi, ad esempio, indosso una maglietta di Babyfather; Dean Blunt è un ottimo esempio di ciò. Alcune delle copertine dei suoi album hanno solo immagini pixelate di una chitarra che potresti trovare tipo su reverb.com. Ma questo a sua volta evoca un’emozione totalmente diversa rispetto alle copertine da migliaia di dollari di un qualsiasi artista pop. Per quanto mi riguarda, mi stimola molto di più quando una copertina di un album o un artwork evocano un’emozione attraverso qualcosa di leggermente inaspettato. Penso che Victor abbia fatto un ottimo lavoro in questo senso e faccia emergere gli elementi infantili di quella canzone.

Se la metti insieme alla copertina del prossimo singolo, c’è una continuità e sembra come se qualcuno stesse attraversando un periodo difficile e quello fosse il tentativo di esprimere ciò che gli passa per la testa. Ma ciò che gli passa per la testa sono le canzoni. Mia mamma ha studiato arteterapia e ho la sensazione che le copertine dei singoli che usciranno siano come versioni di arteterapia di ciò che sono le canzoni.

Fantastico! La mia psicologa sta cercando di farmi fare qualcosa del genere. Ascoltare canzoni e creare qualcosa che non sia scrivere, perché a volte scrivere tende ad immergermi in territori ancora più bui. Quindi mi ha proposto di cercare di creare qualcosa con gli acquerelli o con le matite colorate.

G:  Devi solo provarci. E vedrai che puoi scoprire un sacco di cose.

Vi faccio sapere allora!

Parlando del singolo, comunque, non per spostare il contenuto del pezzo su un livello sociopolitico (ma in fondo tutto ciò che facciamo in un certo senso è intrinsecamente politico). Cosa pensate che non possiamo più fingere di sapere in questo momento?

J: Beh, penso che quello che stiamo vedendo al momento non sia neanche troppo una novità, ma sembra solo estremamente amplificato. A casa in Irlanda è pieno di proteste anti-immigrazione e c’è un senso di profondo disagio intorno a questo perché, del resto, tutti noi siamo migranti. Siamo ovunque nel mondo, sai. C’è uno slogan che circola: “You Don’t Get To Be Racist and Irish”. È difficile, prima di tutto, guardare le persone essere trattate male dal proprio governo quando poi, in aggiunta, non viene data loro la possibilità di imparare o essere istruiti sulla realtà delle cose. E così vivono nella paura e la loro paura si trasforma in odio per le altre persone e per le persone che fuggono dalla guerra. È semplicemente indicibile ciò che sta accadendo in Palestina. È sconvolgente, totalizzante. Ma ci sono eventi devastanti in ogni angolo del mondo di cui non si parla abbastanza, ma sono lì.

E credo che non ci sia niente che si possa fare se non continuare ad essere d’aiuto in tutti i modi per noi possibili. Anche sfidare il pregiudizio delle persone che la vedono diversamente è importante, quando si ha lo spazio e la voce per poterlo fare. Sai, questo è quello che cerchiamo di mettere nella nostra musica.

Penso, per rispondere alla tua domanda, che una delle grandi lezioni della vita, nella mia esperienza, è che siamo tutti un po’ ipocriti; c’è in noi  un’ipocrisia recondita e quello che fa la differenza è  come ci si mette alla prova in questo senso. È questo atto di onestà e confronto che un certo senso porta ad avere una maggiore pace e un maggiore equilibrio con se stessi.

Un punto molto interessante! 

Sulla scia di quest’ultima considerazione, li saluto raccontando loro un mio aneddoto personale che mi lega ad un pezzo contenuto in Gigi’s Recovery, “The Lie Becomes The Self”. Credo di averli fatti un po’ commuovere. O comunque nell’abbraccio che ci siamo scambiati alla fine dell’intervista questa è stata la mia percezione. È sempre molto difficile intervistare artisti che si amano senza sciogliersi nell’emozione ad ogni parola, ma in exitu me lo sono concesso.

•gallery a cura di Luca Fiorini•

 

•immagine in copertina presa dai profili social della band•

Immagine che rappresenta l'autore: Francesca Mastracci

Autore:

Francesca Mastracci