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Mala tempora currunt: Intervista a Karim Qqru (Zen Circus)

A circa un mese dalla sua uscita, Il Male degli Zen Circus resiste come uno degli album più venduti in Italia.

Testimonianza del fatto che siamo tutti un po’ saturi della positività rarefatta e imbellettata che ci viene ostentata ogni giorno su ogni schermo per nascondere il marcio dell’umanità in questo preciso momento storico? Forse. Ma, sicuramente, se il tredicesimo disco in studio della band pisana sta andato così bene è merito senz’altro della scrittura attenta e dell’articolazione sonora urgente e puntuale con cui ogni traccia è stata confezionata.

Del resto, inoltre, sarebbe stato obiettivamente complesso non cedere nell’acquisto del disco con una televendita del genere, bisogna pur dirlo.

Dopo un primo giro di presentazione instore nei negozi di musica e nelle librerie nazionali, passando per la radio e la tv, abbiamo raggiunto telefonicamente Karim Qqru, batterista della band, per parlare de Il Male. Ma anche di quel bene che ne consegue.

 

C’è una citazione che amo molto della letteratura inglese che secondo me è assai vicina a livello di concept rispetto al vostro ultimo disco. È una frase che pronuncia Prospero alla fine de La Tempesta di Shakespeare quando, nel guardare Calibano – questo ammasso materico di oscurità e di male –  si rende conto che comunque è parte integrante di se stesso (“this thing of darkness I acknowledge mine”). Questo momento di consapevolezza e ricognizione l’ho trovato molto presente anche nel vostro male, in qualche modo. È così?

Assolutamente sì, anche perché il disco si chiude con “adesso il male siamo noi” e questa chiusa è quella che secondo me costituisce la definizione totale di tutto il discorso interiore sul male presente nel disco. Anche la traccia di apertura (la titletrack, ndr), che è la traccia fondamentalmente più ostica ma a mio avviso forse anche la più bella (parlo a titolo personale perché poi ovviamente ognuno di noi tre ha la sua) parte dal male come “nostro talento migliore”. Lì però si tratta di una prima persona plurale non tanto riferita a noi nello specifico, ma in generale all’essere umano all’interno di una collettività, in quanto persona che rappresenta la società odierna. Mentre invece nella fine c’è una riflessione più intima, come se Andre stesse parlando della nostra generazione con un suo vecchio amico. All’interno poi c’è tutto, c’è la penetrazione del male come grande rimosso di questi ultimi anni e quindi del fatto che stiamo cercando in ogni modo di nascondere o allontanare sempre di più temi come il lutto, la sofferenza, la morte, a favore di un bene plastificato che è quello delle morning routine, dei filtri su Instagram, di TikTok e di tutta questa specie di sanità apparente che addirittura sta arrivando anche dalla psicoanalisi e cerca di far diventare brillanti e filtrate le imperfezioni.

In realtà, il male ha mille sfaccettature diverse e volevamo distaccarci da una divisione manicheista tra bene e male. Sarebbe molto più semplice vivere se ci fosse una linea netta di demarcazione, ma la realtà è molto più complessa e viviamo in un mondo pieno di sfumature, che però ci si rifiuta di accettare soprattutto a livello di comunicazione.

Per concludere, sì è una riflessione che prende a 360 gradi tutto quello che è il male e lo mette nello stato del contesto moderno degli ultimi anni, totalmente disastroso e rivolto all’entropia.

Non so se siete arrivati a questo nome in maniera programmatica prima della scrittura o ci siete arrivati poi a posteriori, la mia impressione però è stata che, proprio a livello diegetico, ogni capitolo di questo disco fosse lo sviluppo di quella che poteva essere la traccia di un tema generale su cos’è per voi il male. Ed è interessante che vengano prese in considerazione anche le varie stratificazioni, come dicevi tu, tra cui a mio avviso anche la tendenza odierna ad estremizzare quello che pensiamo sia il male, banalizzandone ontologicamente il vero significato.

Allora, parto dall’inizio della domanda. Il titolo del disco in realtà si è autoproclamato; abbiamo iniziato a fare le prove nella seconda metà di ottobre 2023, pochi mesi dopo la fine dell’ultimo tour, vengono fuori 4-5 canzoni e a un certo punto notiamo che in tutti questi brani c’è la parola male. Ci si guarda in faccia e si capisce immediatamente che il titolo si era autoproclamato. Non è stata assolutamente una scelta pensata, ma poi inevitabilmente tutta la narrazione, il costume che si è sviluppato intorno al disco ci ha portato in quella direzione là; il titolo è venuto fuori ben prima della registrazione, bensì durante le prove, la composizione e i primi provini. E nel mentre stavamo già pensando anche all’estetica de Il Male come prodotto, quindi la copertina (che tra l’altro è la prima copertina senza foto della nostra carriera).

Il collegamento che fai te del tutto va male, io lo vedo molto legato a qualcosa che oggi è alla base della comunicazione, ovvero quello del mistificare. La mistificazione credo sia uno dei processi più usati ultimamente, che porta a far valere tutto come niente e viceversa. Giocando con le false verità, si può veramente far credere che non sia mai esistito un avvenimento storico certificato e si può ribaltare totalmente la narrazione; avrai sempre qualcuno che ti seguirà perché non è tanto quello che dici ma come lo dici a catturare la gente. È il classico mala tempora currunt, che in questo caso calza a pennello.

C’è un vostro singolo, secondo me troppo poco celebrato, di qualche anno fa che un po’ penso sia prodromico di questo disco: “Il Nulla”.

Ma sai che quando è uscito quel pezzo ci beccammo le offesa del pubblico? Ci rimanemmo malissimo perché era una canzone a cui tenevamo molto, che veniva dopo un tour, conseguente a Canzoni Contro la Natura, che è stato il primo disco che ci ha portato un vero pubblico. Andate Tutti Affanculo poi è stato storicizzato, ma in realtà era un disco che suonavamo davanti a un due/trecento persone nel 2009; è da quando uscì “Viva” che il pubblico cominciò ad ampliarsi, anche se il grosso del pubblico di oggi l’abbiamo sviluppato dal 2016 in poi. Però avevamo uno zoccolo duro che si incazzò e mi ricordo che dei fan storici proprio se la presero a male per quel brano, perché era come se fosse stato una presa per il culo nei confronti del pubblico. Noi ci rimanemmo malissimo, perché era un pezzo a cui tenevamo; avevamo fatto addirittura Il Nulla Tour, che erano quattro date. Ma niente, forse toccammo un nervo scoperto, vallo a sapere cosa successe.

Non erano pronti i tempi.

Beh, si parla di dieci anni fa comunque. Magari il pezzo non era nemmeno un capolavoro eh, ma quello che fece incazzare le persone non era certo la qualità musicale quanto proprio a livello di testo ché andava a toccare tutte le mille facezie anche di questo ambiente, della vena artistica, della comunicazione. Mi ha fatto piacere che lo hai tirato fuori.

Ho detto la parola tempo non a caso. È stato notato da altri giornalisti che vi hanno intervistato in questi giorni che il tempo pervade il disco. Secondo me, in realtà, in un modo o nell’altro, il tempo un po’ è il fil rouge che accompagna la discografia degli Zen dal minuto zero. Quindi quello che ti chiedo non è tanto com’è la concezione di tempo, di memoria, di ricordi in questo disco, ma com’è cambiata nel corso di questi anni.

Sicuramente quello del tempo che scorre è un po’ una nostra ossessione. Hai usato il termine giusto, è davvero un fil rouge che collega moltissimo la nostra discografia, soprattutto negli ultimi dieci anni della nostra carriera. Penso a “il tempo non si ferma, non si è mai fermato” de “L’anima Non Conta”, penso anche a “Catene” e a tutta la riflessione presente nel brano “Un Milione di Anni”; penso al guardarsi indietro in “900” o “Vecchie Troie”, che mette proprio a confronto due generazioni. In realtà poi è davvero un tema che sottotraccia è veramente presente in tantissime canzoni degli Zen.

Oltre che nei testi, però, anche nelle nostre vite siamo abbastanza ossessionati dal tempo che passa, ma non per forza in modo negativo; è semplicemente un tema che ci tocca moltissimo fa vicino, anche per il tipo di vite che facciamo. Chiunque suona che leggerà questa intervista sa a cosa mi riferisco; spesso si trova una definizione del tempo secondo le fasi di scrittura di un disco, quando si è in studio di registrazione, nella promozione o in tour. A volte ti rendi conto del tempo che passa contando il numero di dischi, il numero di tour, e li tieni poi come asticella per ricordarti dove eri o cosa era successo in quel preciso momento.

Per quanto riguarda invece la registrazione di questo disco, siete tornati ad abbracciare una produzione più artigianale, senza campionamenti di alcun tipo, ed è stato un bel regalo per noi, a livello sonoro, ascoltarlo anche per questa ragione. Una tale scelta spicca soprattutto in seguito ai vostri ultimi due dischi: c’era stata la compilation di Cari Fottutissimi Amici (2023), che era piena di feat, piena di produzione, ma anche L‘ultima Casa Accogliente (2020), che dal punto di vista di studio sonoro, aveva avuto tanto lavoro dietro.

Hai detto proprio una cosa fondamentale, nel senso che LUltima Casa Accogliente è forse il nostro disco meglio suonato in studio, non tanto per la post-produzione, ma c’era una scelta sui suoni abbastanza ossessiva. Lo stesso per Il Fuoco In Una Stanza e La Terza Guerra Mondiale: sono tutti dischi in cui c’è sempre qualche trigger, non c’è quantizzazione sulla batteria perché mi sono sempre rifiutato, però c’è sicuramente tanta produzione e anche un piccolo uso del melodyne. Cari Fottutissimi Amici non lo sentiamo troppo come un disco degli Zen, ma più che altro come un esperimento tra amici, però sì, è molto prodotto. Volevamo tornare alla sala prove, a fare un disco senza quantizzazioni, suonato, senza nessun tipo di editing, senza nessun tipo di correzione vocale; fatto alla vecchia, andando in sala prove e partendo veramente dal suono alla base, quindi la scelta delle pelli della batteria, dei microfoni, degli amplificatori, e poi mettere tutto su un nastro. Il che poi non vuol dire che è meglio così come abbiamo fatto noi, ma ci sentivamo di fare questa scommessa. È un qualcosa che non facevamo da molto tempo e sicuramente ci siamo divertiti nel farlo, la gente l’ha capita questa cosa e ne siamo felici. Il disco è forse quello che è andato meglio, almeno nelle prime settimane, a livello proprio di numeri di vendite, e questo ci fa molto piacere

Nel frontespizio della raccolta per i vostri primi 20 anni Vivi Si Muore scrivete: “crediamo da ormai vent’anni che gli Zen siano la risposta rock a una domanda che nessuno ha mai fatto”. Per i vostri secondi vent’anni, se foste la domanda, cosa chiedereste a voi stessi?

Continuare a fare così, a fare dischi quando vogliamo, a fare live come stiamo facendo negli ultimi anni, a essere amici come lo siamo ora, andare avanti tranquilli, senza picchi, senza grandi infiammate e poi discese. Abbiamo il nostro pubblico che piano piano cresce anno dopo anno, è un pubblico molto vario, intergenerazionale; non è mai stato il nostro anno, non siamo mai stati in hype, e questa è una cosa che ci ha salvato il culo, soprattutto da quelle situazioni nelle quali fai da 0 a 100 da un giorno all’altro, che sono situazioni pericolosissime e difficili da gestire. Noi siamo una band di amici e ci riteniamo fortunati di poter vivere di questo da anni e poter fare fondamentalmente quello che vogliamo; i nostri fan sono una famiglia, che negli anni si allarga, ma rimane sempre una costante. E questa è la cosa più bella del mondo, credo di parlare per tutti e tre.

Mi allaccio a questa cosa per farti una domanda che da un po’ che tendo a fare, soprattutto quando intervisto le band.  Quando è stato quel momento in cui vi siete resi conto per la prima volta che eravate diventati questa cosa qui che mi dicevi? Per dirla con i Minutemen, che la vostra band avrebbe potuto salvare le nostre vite?

Questa è una domanda complessissima, perché secondo me si divide su due piani: quello emotivo/empatico, che non ha bisogno dei numeri, e quello numerico. Ovvero, secondo me c’è stata una canzone che ha sancito questo momento che è “Viva”, quindi più di dieci fa, però le prime avvisaglie ci sono state con “Vent’anni” e “Figlio Di Puttana”, ma là i numeri erano molto bassi. Però sicuramente la lingua italiana ha creato questa polarità, questo specchio empatico, che è qualcosa che ha avvicinato il pubblico. Poi chiaramente negli ultimi anni quando i numeri hanno iniziato a farsi sempre più grossi, ci siamo davvero resi conto che questa roba è qualcosa per la quale come si dice a Pisa “è da baciarsi i gomiti”.

È una grande fortuna avere un pubblico che cresce e ti capisce; magari poi c’è quello che ti molla per un paio di dischi, poi ti riprende, ma non ti dimentica mai. Questa è una cosa per me veramente molto importante! È incredibile anche quando si affaccia del pubblico un pochino più mainstream e comincia ad entrare nel mondo degli Zen e generalmente rimane scioccato in positivo da questa cosa, da questa specie di famiglia che sono i nostri fan. Non te lo dico per piaggeria, ma forse è la cosa della quale andiamo più fieri, anche più della musica che facciamo. Anche perché abbiamo scritto un po’ di canzoni belle, un bel po’ di canzoni di merda, come capita a tanti, però questa cosa qua è una costante. Una cosa che io apprezzo tantissimo, ad esempio, è che quando comunicammo Sanremo all’inizio avevano tanta gente che si era arrabbiata per questa scelta, ma poi ascoltarono il brano e cambiarono idea.

“L’amore È Una Dittatura” tra l’atro è uno dei miei pezzi preferiti della vostra discografia proprio per l’anticonvenzionalità con cui è stato presentato.

Sì, secondo me era l’unico pezzo con cui potevamo andare a Sanremo ed era un anti-singolo, non fatto volontariamente per Sanremo; era un pezzo che avevamo scritto qualche mese prima, di getto, ma a un certo punto ci siamo detti “se ci andiamo, ci andiamo con questo”. Tra l’altro, ti dico, che c’è stata veramente una grande intelligenza da parte dei direttori artistici del tempo nel capirla questa cosa, il che non era scontato.

No, certo! Detto questo, ti faccio l’ultima domanda: tra poco partirà il tour de Il Male, cosa dobbiamo aspettarci da questo tur?

Sarà il tour più grosso della nostra vita a livello di paganti, alcune date sono raddoppiate, e a breve andranno sold-out anche le doppie. Sicuramente ci prenderemo una marea di tempo per l’allestimento e sarà il tour con la preparazione credo più lunga di sempre per noi, quindi a breve inizieremo l’allestimento e le prove generali. Sarà molto suonato, anche se sono sempre suonati i nostri live, però questo sarà un live con più chitarre, meno tastiere del solito e sarà forse il live con più pezzi del disco nuovo della nostra carriera. Almeno nella prima parte.

Ovviamente ci saranno ad accompagnarvi il maestro Pellegrini e il geometra Pagni, con le sue t-shirt di cui sono molto fan.

(Ride) Sì sì, assolutamente. Ci saranno entrambi, comprese le t-shirt talle del Geometra.

Grazie mille Karim per la disponibilità e la gentilezza! Ci si vede ai concerti.

Grazie a te!

 

 

credits immagine in copertina: Ilaria Magliocchetti Lombi

Immagine che rappresenta l'autore: Francesca Mastracci

Autore:

Francesca Mastracci