La scorsa settimana, poco prima della loro data al Legend Club di Milano, abbiamo avuto modo di scambiare qualche considerazione insieme a Jeremy Bolm, cantante dei Touché Amoré, riguardo il loro ultimo disco Spiral In A Straight Line (uscito lo scorso ottobre via Rise Records), facendo anche una retrospettiva sulle scelte impattanti che li hanno portati ad elaborare la loro identità come gruppo. Da fan ormai veterana, per me è stato un bel coronamento sia a livello umano che professionale; conosco Jeremy da un po’ ma questa era la prima intervista che facevamo insieme e ne sono stata estremamente lusingata. Ne è venuta fuori una lunga chiacchierata, che è stata quasi un sequestro di persona per lui, da cui emerge tutta la gentilezza d’animo di un artista disposto a condividere, conoscere ed entusiasmarsi costantemente verso la musica.
Un pensiero che ho spesso condiviso su questi schermi è che a volte purtroppo si perde la misura di quanto sia importante che a plasmare quello che si fa in ambito musicale (e più in generale artistico) debba essere la passione. Jeremy ha confermato un’impressione che avevo già formulato in me, ossia che non c’è giorno in cui l’amore verso ciò che fa non informi la sua vita.
Buona lettura!
Ciao Jeremy, iniziamo. Sono diciassette anni che siete in giro ormai e qualche mese fa è uscito il vostro sesto album. Ricordo esattamente che quando lo ascoltai la prima volta rimasi positivamente sorpresa per il modo in cui avevo percepito chiaramente da un lato una forte evoluzione nel suono ma allo stesso tempo una sorta di essenza autentica nel profondo che vi dà riconoscibilità e vi accompagna sempre in tutti i vostri lavori. La mia domanda è: come ci siete arrivati a creare questa identità così resistente e tenace?
Beh vorrei avere una risposta più interessante a questa domanda, ma credo che succeda e basta quando ci riuniamo noi cinque in una stanza e quello che ne esce fuori è questa cosa qui. Sai, ne parlavo di recente perché anche se stiamo insieme da tanto, i nostri gusti musicali si sono evoluti molto nel frattempo. Tipo nessuno di noi sostanzialmente ascolta più la stessa musica, ma una volta che ci mettiamo in una stanza insieme, non importa cosa abbiamo ascoltato, non appena iniziamo a fare musica suoniamo esattamente come noi. E sono molto orgoglioso che abbiamo sviluppato un suono che se metti su uno qualsiasi dei nostri dischi senza sapere che è il nostro, puoi capire immediatamente che siamo noi da come suona. Che si tratti solo delle chitarre vibranti, dei bassi distorti, della batteria veloce, o della mia voce che ci urla sopra. Qualsiasi cosa ti fa pensare immediatamente “sono i Touché”. Quasi al punto che ho la sensazione che siamo una band difficile da replicare completamente, sai; ovviamente so che la nostra band ha influenzato altre band, il che è molto lusinghiero, ma sono molto orgoglioso del fatto che abbiamo sviluppato un suono talmente tanto distintivo che, non importa cosa facciamo, non importa cosa ascoltiamo, non importa cosa abbiamo passato nelle nostre vite o cosa stiamo attraversando o cosa stiamo cercando di ottenere, alla fine non possiamo fare a meno di suonare così.
Totalmente! Non per essere derivativa delle domande che fai nel tuo podcast (First Ever Podcast, ndr), ma questa domanda mi piace porla spesso alle band che intervisto: quando è stata la prima volta che avete capito che stavate diventando qualcosa di importante?
Oh, bella domanda. Sicuramente è successo prima a livello locale. Sai, quando abbiamo iniziato a suonare, sono stato fin da subito molto specifico sulla frequenza delle date nello stesso posto perché sappiamo tutti com’è: c’è una band locale cool ma suona un po’ troppo spesso in zona e alla fine si stancano tutti. Lo avevo già fatto con le mie band precedenti, sapevo come funzionava.
Quindi abbiamo deciso di prenderla in maniera più mirata e suonare solo se fossimo riusciti ad aprire per uno spettacolo più grande. O comunque non suonare affatto finché non avessimo avuto musica registrata, merch e tutto il resto. C’era un locale a Los Angeles chiamato Nomad Art Gallery, che era tipo un DIY, dove abbiamo suonato solo un paio di volte, ma la prima volta c’erano tipo 200 persone che hanno cantato tutti i nostri pezzi da quando abbiamo iniziato il set. È stato incredibile! Poi è arrivato il Sound and Fury, il primo anno che abbiamo suonato lì nel 2009, dove ci sentivamo un po’ come se non appartenessimo veramente a quel luogo sotto molti aspetti, come per altre band che erano lì, tipo i Title Fight (quella era la prima volta che suonavano sulla costa occidentale). Suonavamo tra band che non erano nel nostro stile e sicuramente ci siamo sentiti un po’ fuori posto. Ma all’improvviso, siamo saliti sul palco e abbiamo iniziato a suonare e tutto un gruppo di persone è venuto avanti. Quindi abbiamo pensato: aspetta un minuto, c’è qualcosa che si sta muovendo qui. E abbiamo fatto un set davvero folle.
Dopo di noi ci sono state una serie di altre band hardcore. E dopo quel set, uno dei co-proprietari della Deathwish che ci aveva visti suonare è venuto e ci ha detto che dovevamo parlare. Ed è così che abbiamo firmato per la Deathwish. Quindi sì, direi che è stato quello probabilmente il momento più significativo per noi.
Andiamo adesso al vostro ultimo disco. Spiral In A Straight Line: come siete arrivati a questo titolo così dicotomico e paradossale?
Come era già successo in passato, quando scrivo testi, può capitare che mi concentri su un verso nello specifico e penso che magari quello potrebbe avere una propria essenza. “Altitude” è stata la prima canzone che ho scritto per il disco e quel verso è stato come un punto di partenza davvero incredibile per dire: ok, da qui si può iniziare a pensare ai temi che possono dar forma al disco intero. Così l’ho portato a Nick (Steinhardt, chitarrista della band, ndr), che progetta tutto. E lui ha capito subito l’importanza e si è emozionato, pensando anche molto a cosa avrebbe potuto significare visivamente la frase e a cosa avrebbe rappresentato.
Così abbiamo registrato una demo di quella canzone e l’abbiamo fatta ascoltare ad un paio di amici musicisti; ognuno di loro ha colto subito quella frase. Quindi ho pensato proprio che quello dovesse essere il titolo. Ma da dove è venuto, non lo so. Voglio dire, sì probabilmente ne ho anche parlato riguardo quello che poi ha significato per me; l’idea che, sai, tutti noi abbiamo cose che stiamo attraversando e dobbiamo in qualche modo capire come affrontarle. Ed è come camminare su una linea retta mentre siamo dentro una spirale.
Sì, proprio quest’evocatività rende il titolo così calzante perché comunque in effetti, metaforicamente, si applica bene a tutte le tracce del disco (ma in generale, potremmo dire a tutta la vostra discografia). Una costante dei vostri lavori penso sia proprio che non importa quello che si sta attraversando, l’ansia, l’abbandono, la perdita, il timore, qualsiasi cosa che ci rende la vita difficile, ad un certo punto c’è sempre qualcosa per cui sentiamo che vale la pena combattere per dare un senso a tutto il dolore. Cos’è che pensi abbia il potere di dare un senso alla tua vita in questo momento?
Sai, per quanto riguarda questo disco, molto è arrivato dopo la fine di una relazione importante e indubbiamente questo mi ha fatto rivalutare molte cose della mia vita. Ma ora al netto di tutti i terribili incendi che ci sono stati a Los Angeles nell’ultimo periodo, ti direi che questa è stata una grande scossa. Una mattina mi sono svegliato e mi è stato detto fondamentalmente che dovevo fare una valigia e andare via perché non sapevamo quanto velocemente si stava diffondendo l’incendio. E in quel momento, mi sono ritrovato a non prendere un sacco di cose. Ho messo dentro il mio passaporto, le ceneri di mia madre, alcuni vestiti, un libro dove tengo tutti i biglietti degli spettacoli dove sono stato, un paio di cose sentimentali, una scatola di foto e basta. E ricordo di aver guardato tutta questa roba e aver pensato che ho passato tutta la mia vita a collezionare dischi, libri, film e tutto il resto, ma senza nemmeno pensarci ero pronto a lasciar bruciare tutto, capisci? Quindi se non altro, questo mi ha aiutato, mi aiuta, a mettere le cose in prospettiva. Mi sono reso conto che molto di quello che accumuliamo sono solo cose, anche insignificanti a volte. Quando sono tornato a casa nel mio appartamento e ho capito che sarei stato bene, è stato difficile non pensare: ho bisogno di tutta questa roba?
Inizi a pensare che basta davvero poco per poter essere felice, capisci? Non so se questo risponde alla tua domanda, ma in un certo senso mi ha fatto mettere in prospettiva il fatto che le cose che hanno un significato per me sono quelle poche che so che hanno effettivamente un valore. E c’è una sorta di conforto in questo pensiero.
Capisco perfettamente quello che intendi, certo!
Nel disco ci sono una serie di riferimenti intertestuali ad altri lavori. Penso ad esempio a Mezzanine (dei Massive Attack). Nel testo c’è in verso in cui dici: “I’m listening to Mezzanine and going over everything”. In che modo questo disco ha un tale potere su di te? Ce ne sono altri che ti fanno lo stesso effetto?
Oh wow, ce ne sono così tanti che vorrei poter dire, ma sarò specifico e voglio scegliere qualcosa che sia poco prevedibile.
Ho scelto quel disco dei Massive Attack perché la nostra canzone è ovviamente molto abrasiva e caotica, mentre invece quel disco appunto mi rilassa incredibilmente. Dummy dei Portishead anche è un disco che potrei mettere su in qualsiasi momento. O anche qualsiasi greatest hits di Sade. O Pink Moon di Nick Drake. Sono dischi totalmente rasserenanti per me; potrei anche spegnere il cervello e non prestare attenzione al testo, semplicemente godermi la sensazione che mi trasmettono.
Ottime scelte. A tal proposito, quanto siete consapevoli che per alcuni sono invece i vostri dischi ad avere un potere simile o comunque ad essere uno strumento in grado di aiutare chi li ascolta ad affrontare momenti difficili delle loro vite? La percepite come una responsabilità questa cosa? Quanto può essere un peso per voi?
Beh sì, lo è. Certamente da un lato non posso che essere molto lusingato e onorato che sia così per qualcuno. Ma c’è sempre in me anche la paura e l’ansia che ad un certo punto potremmo pubblicare qualcosa che i fan odieranno e all’improvviso non saremo più quella band per loro. Spero di poter continuare ad essere sempre tutto ciò di cui hanno bisogno che siamo. Ma se ciò non dovesse accadere, spero che ci sia qualcos’altro con cui possono sostituirci e che abbia lo stesso valore per loro.
Oh, wow. Questo è veramente un pensiero molto nobile da parte tua. Talvolta ho l’impressione che i musicisti diano per scontato il supporto dei loro fan. Anche quando fanno scelte discutibili, le giustificano in modo banalizzante cercando di trovare scuse pretenziose dietro quello che in realtà è un mero desiderio di diventare magari più commerciali. E non è detto che a quel punto continuino ad avere lo stesso impatto per chi li ha sempre seguiti ed essere quello di cui i fan hanno ancora bisogno.
No, certo, capisco perfettamente quello che intendi. Ed è probabilmente per questo che il più grande onore che penso abbiamo noi cinque è che in qualche modo siamo riusciti ad avere negli anni una solida base di ascoltatori che ci è rimasta accanto per tutto il tempo. Sia che fossero con noi fin dall’inizio o che siano arrivati più di recente, in questo tour stiamo constatando che comunque cantano sempre tutte le canzoni dalle prime alle ultime di Spiral. E credimi, non c’è sensazione migliore. Penso che sia una specie di testamento della nostra identità come band, di cui parlavamo prima. Mi rendo conto che però questo è anche il lato positivo del non aver mai avuto un successo veramente commerciale. Perché se lo avessimo avuto, la gente ci avrebbe associati solo a quello e basta. Capisci cosa intendo?
Sì, sono d’accordo. Credo che ad un certo punto, nel momento in cui si decide di assumere un taglio più commerciale, bisogna valutare una serie di questioni sulle proprie scelte e sui compromessi da accettare: quali va bene accettare e quali no per non snaturarsi nonostante tutto?
Esatto. C’è una band di Los Angeles, i Dangers, che secondo me ti piacerebbe molto. Hanno pubblicato un disco chiamato The Bend In the Break (mentre sbobbino l’intervista, li ho ascoltati; confermo, mi piacciono!, ndr). Il cantante e io siamo nati lo stesso giorno dello stesso anno nella stessa zona. Non so se è per questo, ma ci troviamo spesso d’accordo nel parlare di cose della vita. Stavamo parlando qualche tempo fa dello spingersi oltre i limiti, cercando di essere più accattivanti o commerciali. Ad un certo punto, capisci che va bene tutto ma qualsiasi cosa tu faccia non puoi mai romperti; puoi piegarti in quella direzione, ma devi rimanere attaccato a quello che sei, o comunque devi rimanere in linea con il motivo per cui piaci alla gente. Ci sono così poche volte in cui una band può abbandonare completamente il suo sound e comunque essere accettata; tipo i Turnover sono un ottimo esempio, per loro ha funzionato alla perfezione. Ma sono pochi quelli che riescono a farcela. Bisogna essere molto sicuri di quello che si sta facendo. E questo penso sia qualcosa che i fan riescano a sentire.
Prima mi hai consigliato una band. Una cosa che ho sempre apprezzato molto di te è questa tua curiosità che susciti verso la scoperta di nuove band, nuovi dischi. Ed accade perché in primis sei tu molto curioso. Ricordo che qualche anno fa avevo fatto una playlist di screamo/emocore/post hc italiano e ti era piaciuta perché avevi scoperto band che non conoscevi. (Se siete nuovi su questi schermi, potete trovrla qui, ndr). C’è qualcosa di nuovo che vorresti consigliarci?
C’è una band che probabilmente potrebbe essere già abbastanza conosciuta qui; saranno a tre dei nostri concerti tedeschi (Berlino, Amburgo e Dresda), si chiamano Smile e mi piacciono davvero molto. La cantante, Ruby viene dal New Mexico e la conosco da sempre, abbiamo un sacco di amici in comune, si è trasferita in Germania, è andata ad una scuola d’arte e ha fondato questa band. Quando li ho sentiti la prima volta ho pensato che fossero qualcosa di veramente unico e raro. Non so come andrà di fronte al nostro pubblico, ma sono davvero emozionato di vederli live. Quindi loro sicuramente li consiglierei.
Grazie per il consiglio! Nel disco compaiono anche due featuring. Uno è con Julien Baker che ormai è, come l’avete definita voi stessi, il sesto membro della band (la cantante aveva già prestato la voce in “Skyscraper” e “Reminders”, oltre che essere spesso ospite dei loro show, ndr). Avete mai pensato di fare qualcosa insieme tipo uno split-album o cose del genere?
Non lo dico per essere svilente nei nostri confronti, ma non credo che questo le farebbe alcun favore (ride). Sarebbe fantastico, però, sicuramente. Per ora no, comunque, continuiamo ad essere onorati quando ci dà la sua disponibilità di tanto in tanto e passa del tempo con noi per urlare su qualche traccia.
L’altro feat. invece è con Lou Barlow dei Sebodah in una traccia (“Subversion”) in cui prendete dei versi da “Brand New Love” dei Sebodah e li usate nell’outro. Come vi è venuta in mente quest’idea così folle?
(Ride) È folle, sì. È successo questo: quando stavo scrivendo quella canzone nello specifico eravamo in Australia, ad Adelaide. Siccome ho paura di volare, faccio spesso una cosa: nel momento in cui l’aereo sta per atterrare, metto su una delle mie canzoni preferite in assoluto nel caso in cui dovessimo schiantarci. Quel giorno mi è capitato di mettere “Brand New Love” dei Sebodah, che è una delle mie canzoni preferite in assoluto. E quindi ho pensato, scriverò di quello. Stavo attraversando una separazione e “Brand New Love” riguarda proprio il trovare un nuovo amore dopo la fine di una relazione. Quindi ho pensato che fosse un bel modo di ricominciare, per andare perlomeno verso l’accettazione e magari vedere cosa può succedere dopo, se si è ottimisti. Ehm, quindi ho pensato che fosse tutto molto toccante e che avrei voluto scrivere di quello. E poi mentre ragionavo all’outro, mi è venuto un clic. A volte penso che magari non voglio urlare troppo e mi piacerebbe magari modulare di più la voce, e casualmente ho canticchiato il ritornello di “Brand New Love” sulla parte finale del pezzo che stavo scrivendo. Il risultato era veramente molto interessante e strano. Siccome non ci capisco molto di musica, in termini tecnici di tonalità e cose del genere, l’ho portato a Nick e Clayton e gli ho chiesto se musicalmente avesse senso fare una cosa di questo tipo. Loro hanno pensato immediatamente che potesse funzionare e così siamo andati a registrare una demo di prova dal nostro amico Alex (Estrada, ndr) che ha registrato Dead Horse X e un sacco di altre nostre tracce nel corso degli anni ed è di fatto uno dei nostri più stretti collaboratori musicali.
Gli ho spiegato l’idea e gliel’ho fatta cantare nella demo visto che ha una voce straordinaria. E ho pensato che funzionasse benissimo. Quindi ho cercato di capire a chi avremmo potuto potenzialmente far fare una parte come ospite; mi sono venute un sacco di idee stupide tipo chiedere a Ben Gibbard (Death Cab For Cutie, ndr) o a Jim Adkins (Jimmy Eat World, ndr). Ma poi ho pensato: e se lo chiedessimo semplicemente a Lou Barlow? Quanto sarebbe folle? Ho ottenuto il suo contatto e gli ho scritto un’e-mail, spiegandogli cosa volevo suscitare e cosa stavo attraversando, gli ho inviato il testo e gli ho fatto sapere quanto la canzone significasse per me. Ho cercato di essere il più attento possibile e lui ha risposto dicendo semplicemente: sì, dai, sembra divertente. Quindi quando ci ha inviato la traccia registrata ho pensato che fosse la cosa più bella del mondo. Non riuscivo a crederci. E ancora non ci posso credere. E sai, l’ho intervistato per il mio podcast ed è stata l’unica volta che abbiamo parlato.
Sì, mi ricordo quella puntata.
Sì, avevamo parlato solo tramite messaggi e gli avevo inviato un lungo video di ringraziamento in cui gli dicevo quanto fossi emozionato e grato. Ci siamo scambiati dei messaggi molto simpatici, ma non avevamo mai realmente parlato prima dell’intervista. Ho provato a convincerlo a venire al nostro spettacolo a Boston, perché vive nel Massachusetts, ma a quanto pare è a tre ore da Boston. Quindi non è mai successo che cantasse il pezzo con noi dal vivo. Non ancora.
Certo! Forse un giorno accadrà. Sarebbe stupendo! Di recente avete anche realizzato la cover per un pezzo dei Refused contenuto nella reissue per il 25imo anniversario di quel disco incredibile che è The Shape Of Punk to Come. Il pezzo che avete suonato voi è “The Apollo Programme Was A Hoax”: lo avete scelto voi o vi è stato attribuito?
Conosco Dennis da un po’, ho intervistato anche lui qualche tempo fa. Abbiamo registrato una cover di quel pezzo credo nel 2021, nella stessa sessione in cui avevamo fatto anche una cover dei Circa Survive, qualcosa degli Strokes e dei Guided By Voices. Quindi sì, una nostra versione di quel brano circolava già da un po’ di tempo ormai. Poi Dennis mi ha contattato per chiedermi se fossimo interessati a partecipare a questa compilation di cover e ovviamente eravamo molto onorati di questo. Però abbiamo pensato sin da subito a come fare per rendere quel pezzo al meglio se dovevamo inserirlo in un disco ufficiale di cover. Così, ho riascoltato l’intero album anche se lo conosco a memoria. Ma l’ho riascoltato per capire come potessimo fare, e alla fine abbiamo sostanzialmente mantenuto la struttura originale, che è anche abbastanza minimale, e abbiamo cercato poi di renderla il più nostra possibile. È stato emozionante.
Ho apprezzato davvero molto il modo in cui è venuta fuori. Sono i Touché che suonano i Refused, veramente bella! Mi ricordo di aver ascoltato anche una vostra cover dei Nirvana di “Lounge Act”.
Ah sì, vero. Quasi dimenticavo. Anche quella è stata una bella cover da realizzare.
Ci sono altri pezzi di cui vorreste fare una cover?
Pensa abbiamo una playlist su Spotify in cui abbiamo messo tutte canzoni che ognuno di noi ha suggerito. Abbiamo già fatto uscire un Vol.1 di Covers con il pezzo degli Strokes ( “Hard to Explain”) e quello dei Guided By Voices (“Game Of Pricks”). Quindi se facessimo un Vol.2 qualcosa che è in quella playlist potremmo metterlo. Ehm, c’è una canzone dei Mission of Bruma (“Tha’s When I Reach for My Revolver”), i Rites of Spring (“For Want Of”), Tom Petty (“Walls”), Get Up Kids (“Let the Reigns Go Loose”), …And You Will Know Us by the Trail of Dead (“Relative Ways”). Li conosci loro?
Mmmh, no a dire il vero.
Questo disco è davvero molto bello, credo sia del 2000 o 2001, uscì per una major ma fu un flop. Ma per chi ha avuto modo di scoprirli, sono stati veramente folgoranti.
Me li segno e li ascolterò senz’altro allora. Grazie! Allora restiamo in attesa di questo Vol.2!
Perché no?!
*
Ci salutiamo finendo per parlare ancora un po’ sul modo in cui tradizionalmente si impostano le interviste e mi faccio dare qualche dritta visto che il suo podcast conta quasi 250 puntate. Dopodiché un abbraccio e via, si va verso il live. Uno degli innumerevoli dei Touché ai quali ho partecipato. Ed incrediblmente, come ogni singola volta, sempre uno dei live più emozionanti di sempre.
credits immagine in copertina: Sean Strout