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Intervista al Maestro Pellegrini

Intervista a cura di Alessandra Sandroni

C’è un locale nel cuore di Pisa che è nato di recente, principalmente come sala prove/lezioni musicali, e sta portando avanti un interessante programmazione di eventi live. Si tratta della Backstage Academy, a due passi dalla Torre Pendente, dove giovedì 4 Aprile è stato ospite il Maestro Pellegrini. Quarto membro degli Zen Circus, ex fondatore dei Criminal Jokers e turnista per artisti del calibro di Mobrici, FASK, Nada e tanti altri; dal 2020, anno di uscita del primo album Fragile, porta avanti anche il suo progetto solista. Il secondo capitolo di questo percorso si chiama Chi sono io, uscirà a Maggio e, contro ogni logica commerciale, Francesco lo sta presentando in anteprima in una serie di showcase che ha messo in piedi in lungo e largo per lo stivale. Sarà che è figlio d’arte, che è cresciuto a pane e musica e che si nutre di emozioni, ma è evidente che non è l’hype ad interessarlo, bensì la reazione di chi entra in contatto per la prima volta con le sue canzoni.

Questa sera ad anticipare il concerto con un breve talk c’era il mitico Ico Gattai, cantautore pisano, frontman della band Ico E I Casi Umani e scrittore, che ha intavolato con l’amico livornese una conversazione brillante e divertente.

Rimasto da solo con la sua elettrica, qualche effetto e l’immancabile cappello nero in testa, il Maestro Pellegrini sembra uscito da un libro illustrato. La sua voce regge da sola tutto quel che manca all’apparenza su quel palco e, insieme alla chitarra, ci tiene incollati fra bellissime novità, canzoni già note (non potevano mancare nel set “Cent’anni” e “Semplice”, dedicata al padre) e un omaggio alla città di Pisa dove ammette di sentirsi come a casa, con due cover di due band pisane. La prima, dei Criminal Jokers con “Cambio la faccia” dove spunta sul finale anche un accenno di “Sporca Estate” di Piero Ciampi e l’altra, una versione scarna de “La Democrazia semplicemente non funziona”, degli Zen Circus.

In questa veste solista escono fuori il suo spiazzante talento e l’amore per la musica, grazie ai quali il Maestro Pellegrini mette su un concerto intimo come ormai non capita quasi più di vederne, emozionante. Consiglio spassionato: se vi capita a tiro non perdete l’occasione di andarlo a sentire live.

Prima del concerto sono passata dall’Academy per fargli qualche domanda sul nuovo disco e, quella che doveva essere una chiacchierata veloce si è trasformata in conversazione approfondita, durante la quale Francesco si è aperto con una gentilezza rara. Siamo passati dal parlare del nuovo disco, di cui ci ha regalato anche un gustosissimo spoiler, ai flussi di coscienza; mi ha raccontato di chitarre stoppate con stracci per tener ferme le corde, del rapporto conflittuale col padre e con la sua città natale, di quando ha abitato nella casa di Virzì e molto altro ancora. Ho scoperto poi una cosa che, non conoscendolo, non sospettavo minimamente: complice il sangue livornese che gli scorre nelle vene, Francesco è autoironico e divertente, sia sul palco che fuori.

L’anteprima l’ho avuta verso la fine del soundcheck al quale stavo assistendo in attesa di intervistarlo, quando, al momento di regolare gli audio dei due microfoni con i quali si sarebbe svolta più tardi la chiacchierata con Ico, al posto di un normale “sa sa prova”, ha improvvisato un’intervista esilarante alternandosi in entrambi i ruoli, mentre il tecnico regolava i volumi.

ph. Lorenzo Santagada

Ico ti ha già fatto tutte le domande che volevo farti io, non ho più niente da chiederti.. (ridiamo, ndr). Scherzi a parte, come stai?

Bene. Sono un po’ provato dalle anteprime e dagli showcase che mi sono messo in piedi in autonomia e naturalmente mi sono sopravvalutato, perché ne sto facendo tantissimi e fisicamente è stancante. Ma c’è questo format che mi inventai col primo disco di suonare le canzoni prima che siano uscite sulle piattaforme ufficiali, che secondo me è una cosa carina per creare curiosità per eventi che stanno perdendo piglio. Sembra che non ci si voglia più sorprendere troppo, no? Si va agli eventi di cui si sa già tutto. Invece secondo me è bello sorprendersi e scoprire cose nuove. E poi avevo una voglia forte di condividere con le persone tutto quello che va al di là del concerto. Il contatto, anche personale, interpersonale. Negli eventi importanti dove ho lavorato ultimamente si perde molto questo aspetto perché il pubblico se ne va subito, il locale chiude subito, è tutto organizzatissimo. Si perde anche un po’ l’imprevisto… umano.

 

Quindi immagino tu abbia già programmato altre date in seguito all’uscita del disco.

Ci sarà un tour estivo in duo. Però, mentre per il primo disco il duo era composto da me e mio padre Andrea Pellegrini al pianoforte, questa volta anche per esigenze dell’album che è abbastanza elettronico, diciamo ibrido (abbiamo utilizzato sì strumenti acustici, ma anche tanta elettronica), ci sarà un ragazzo che ha prodotto con me l’album, che si chiama Alberto Falò. Lui mi accompagnerà suonando più strumenti possibili, più synth possibili e adesso ad Aprile cominceremo le prove. La prima data estiva sarà l’8 Giugno a Macerata.

 

Allora mi confermi che il sound di Chi sono io vira all’elettronica?

E’ un ibrido. Il riferimento sarebbe quello che per me lo è da sempre ma che in questo disco si sente di più, ed è “Everyday Robots” di Damon Albarn. Gli strumenti acustici ci sono ma sono filtrati. Con elettronica io intendo tutto ciò che dà una timbrica diversa agli strumenti acustici. Poi ci sono anche delle batterie elettroniche e, soprattutto, delle code strumentali elettroniche, anche lunghe; spesso anche ad una velocità abbastanza elevata, non dico Tecno… ma quasi.

 

Mi incuriosiscono molto le varie fasi di composizione di un disco. Prima parlavi appunto di produzione, per Fragile so che quest’ultima richiese a te ed Andrea Pachetti (produttore del disco, ndr) quasi due anni. Cos’è cambiato per Chi sono io, se qualcosa è cambiato?

E’ cambiato tantissimo. Innanzitutto è cambiata la città, poi è cambiato l’approccio perché il primo disco è stato fatto con Pachetti a Livorno, dove comunque io venivo da un’esperienza in studio come musicista ma non come produttore e neanche come cantante. Quindi il lavoro è stato difficile inizialmente, perché dovevo entrare in un’ottica diversa da quella che avevo avuto fino a quel momento, dovevo anche immaginarmi tutto un sound su dei brani che erano nati pianoforte e voce. La scelta di pubblicare l’album anche in versione pianoforte e voce è stata proprio dovuta al fatto che i brani erano nati così. La produzione nel primo album è stata gestita molto più da Andrea, nel secondo invece è stata gestita da me e da un ragazzo che è alla sua prima esperienza. La storia è interessante, perché lui a Padova era il mio coinquilino.

 

E studiava filosofia.

Esatto, studiava filosofia. Figlio d’arte anche lui, sua mamma è una pianista. Ci siamo studiati per dei mesi. Stava al computer tutto il giorno a produrre musica, quindi per quanto io sia un po’ titubante in generale nella vita, un giorno, anche complice il lockdown, sono andato nella sua cameretta/studio e gli ho detto: “Alberto io ho un pezzo nuovo, proviamo a farlo insieme e vediamo che succede”. Sono rimasto stupito dal suo approccio, che è molto simile al mio avendo studiato musica classica, e anche dagli obiettivi. Il mio era di tenere tanta sporcizia, tanta vita, tanto imprevisto e tanto errore. Il più possibile. Tant’è che quando ho fatto sentire il disco a mio padre mi ha detto: “Guarda, non ti sto a dire tutte le cose armoniche sbagliate che ci sono perché, altrimenti, litighiamo”. Io gli ho risposto che invece l’avevo fatto apposta. Pensa che ci sono chitarre acustiche che vengono pizzicate come i violini, con degli stracci messi fra le corde per stopparle; c’è un basso elettrico suonato con l’archetto verticale, ci sono tantissime chitarre elettriche scordate e ci sono molte take che abbiamo tenuto dalla versione casalinga. Naturalmente poi le batterie sono state fatte in studio a Padova con Cristopher Bacco e le voci e il mix sono state fatte da un ragazzo che ha le competenze per farle, che è Luigi Tarquini, a Milano. Anche le voci le ho fatte là, perché è importante farle alla fine e quindi gli ultimi passaggi li ho fatti con Luigi. Questa è stata un po’ l’evoluzione. Questo disco ha vissuto in due città diverse, Padova e Milano. Naturalmente tutto quello che riguarda il mio progetto va parallelamente alla mia vita, alle mie storie di vita. E’ la cosa più personale che ho in ambito artistico e cerco di tenermela stretta.

 

Hai infatti dichiarato che per te scrivere un brano è una sorta di flusso di coscienza, è ancora così?

Si, assolutamente. Per questo album è cambiata la modalità di produzione, ma la scrittura è rimasta esattamente la stessa. Ho scritto pianoforte e voce la maggior parte dei brani.

 

Il pianoforte resta il tuo punto fermo, per la composizione.

Si, per due motivi… forse tre. Il primo è perché trattandosi di uno strumento che conosco un po’ meno mi stupisce di più. Secondo, perché per la composizione in generale è lo strumento più completo che c’è e comunque, per quanto io cerchi di scrollarmi di dosso tutti i retaggi accademici, la mia formazione viene da lì. Armonicamente il pianoforte mi aiuta molto nella conduzione delle voci. E da ultimo direi perché è lo strumento che suona mio padre. Con lui c’è stato un rapporto particolare, come tutti, soprattutto in adolescenza: allontanamenti, periodi in cui non ci siamo visti molto. Forse, inconsciamente, c’è un ricercare nella musica un rapporto con lui.

 

Ed è il primo a cui fai sentire i tuoi lavori, appena finiti?

Francesco resta un po’ in silenzio, sorridendo appena e scuote la testa, divertito.

 

No?! Ci avrei giurato!

Diciamo che il primo disco l’ho scritto a Livorno, ero in una casa che mi aveva affittato Virzì in Venezia (quartiere Livornese, ndr) e di conseguenza i primi a sentirlo sono stati lui e mia madre. Peraltro è mia madre che ha deciso che “Inattaccabile” parlasse di mia sorella, perché quello era un brano che per il flusso di coscienza di cui parlavamo, inizialmente non aveva un destinatario o destinataria ben precisa. Facendolo sentire a lei mi disse: “ma questi siete tu e tua sorella da piccoli, secondo me stai parlando di ricordi che hai di lei”. Allora ho inserito successivamente nel testo la parola “Tato”, che è il soprannome che mi ha dato lei, che continua a darmi e che mi dà anche la mia nipotina che mi chiama “Zio Tato”.

 

Come nascono i tuoi testi?

La mia idea è quella di mantenere le immagini e non soggiogarle ad una narrazione che debba essere necessariamente chiara e discorsiva, ma che in qualche modo lasci molto più spazio all’immagine e anche all’interpretazione di chi la ascolta. E che resti quindi un po’ più svincolato da un messaggio diretto e argomentato. Di solito parto da delle frasi che mi hanno colpito, che magari ho detto io o qualcuno che è stato con me. Qualcosa che mi ha punto, solitamente. Quando poi ho un’armonia provo a cantarci sopra una di queste frasi che in quel momento mi piace particolarmente; e da lì provo ad unirci cose che ho scritto già o quello che mi viene sul momento. Il significato di solito arriva successivamente, ma comunque non modifico il testo. Semmai lo completo, per dargli una direzione, ma non lo ritocco mai più di tanto. Per vari motivi, ma soprattutto perché qualsiasi altra cosa mi sembrerebbe più artefatta. Poi è un approccio, non necessariamente l’unico… per me è così, quando scrivo per me, ecco.

 

Scrivi mai quando sei in tour con gli Zen o come turnista?

La mia scrittura è legata molto anche ai livelli di stress che attraverso. Gli Zen non me ne creano affatto, perché per me loro sono famiglia. Quando sono in giro con loro riesco molto a rimanere in contatto con me stesso, che poi è la cosa importante per scrivere e quindi sì, tanti spunti sono sicuramente nati in tour, soprattutto per il primo disco. Ci sono tante storie, immagini, frasi che mi sono appuntato durante il tour con loro, durante il quale ci confrontiamo molto, no? Quando poi i tour iniziano ad essere troppi si perde il contatto con sé stessi e allora, scrivere, diventa più difficile. Questo lo dico perché l’altro anno non ho lavorato solo con loro ma anche con altri due tour e lo spazio mentale era veramente poco. Ho avuto la fortuna che in quel periodo dovevo mixare e fare le voci, ma mi sono reso conto che avere la giornata completamente impegnata, la testa completamente impegnata, ti inficia un po’ anche la scrittura e lo spazio che riesci a dedicarle.

 

Come hai appena raccontato sei completamente immerso in una dimensione che ti porta a circondarti da altri musicisti. Per Fragile infatti le collaborazioni con amici e colleghi sono state tante, in Chi sono io non ce ne sono, o sbaglio?

Si, esatto. Bravissima. Per Chi sono io è stato proprio l’opposto. Diciamo che da Fragile ad oggi ho iniziato un percorso… di analisi (lo dice ridendo, ndr). No, ho iniziato un percorso personale che reputo di crescita. Nel senso che io ho sempre fatto tutto tardi e sento che, da quel disco là, l’evoluzione personale è stata tanta e mi ha portato soprattutto ad allontanarmi un po’ da Livorno. E mi sono reso conto che lontano da Livorno ci stavo meglio. Il motivo non te lo so dire precisamente, ma probabilmente non ho fatto pace con una serie di cose e di persone che quella città rappresenta per me. Nel primo disco abitavo là e la dimensione era ancora quella di condividere tantissimo con tutti, poi a Livorno io e mia sorella siamo musicisti da quando eravamo piccoli, perché conosciamo chi fa questo lavoro, di tutte le età, da sempre. E naturalmente col mio primo disco tanti musicisti livornesi si sono prestati, anche volontariamente e con entusiasmo, a partecipare. A partire da Beppe Scardino, Simone Padovani, anche professionisti di un certo tipo… Fabrizio Balest… alla fine erano undici i musicisti che hanno suonato nell’album. Nel secondo disco c’era questo momento di stacco da tutto quello che era stata la mia vita a Livorno, la mia vita precedente, quindi c’era anche una volontà di azzeramento, di cercare in qualche modo di arrivare dove volevo arrivare da solo, no? Volevo capire dove potevo arrivare da solo, probabilmente. Ed è quello che sto cercando di capire in questi anni. Poi, questa volontà di solitudine, è diventata un po’ eccessiva. Nel senso che sono tre anni che giro da solo per i miei concerti e avevo bisogno di scegliere le persone in un modo attento. Alberto Falò è la persona adatta per entrare in questo progetto e sarà la prima persona a farlo ufficialmente. Ci siamo divertiti, in quegli anni di isolamento, a metterci in gioco. Abbiamo suonato entrambi, tanti pianoforti li suona lui che è uno strumento che ha studiato da piccolo. Alla fine c’è un violino che ci hanno mandato, qualche batteria come ti dicevo l’abbiamo registrata a Padova, ma abbiamo suonato noi tutto il resto, si.

 

Mi ha incuriosito molto anche la copertina. Il titolo del disco è Chi sono io, senza punto di domanda, mentre il tuo volto è cancellato.

Dai, facciamo un piccolo spoiler. La copertina a cui ti riferisci è quella del singolo, che però è anche la title track dell’album. La narrazione grafica è proprio di partire dall’anonimato per arrivare alla nudità. La copertina mi vedrà nudo di spalle che faccio stretching, in cucina. L’idea sarebbe di arrivare dall’anonimato alla nudità per vari motivi. Il primo è perché ho avuto diversi ruoli nella musica e io stesso sono andato ad un certo punto in confusione, mi immagino il pubblico. Ecco allora la voglia di azzeramento. L’idea della copertina del singolo è stata del grafico e mi è piaciuta tantissimo, mentre quella della copertina del disco era mia, ce l’avevo già da tempo. Quando è venuta fuori questa immagine col volto cancellato l’ho trovato un concetto molto interessante, forte, che in qualche modo trasmetteva anche la volontà di azzerare un po’ i ruoli che mi ero cucito e che mi avevano cucito addosso per ricercare un’identità mia, che in questo disco è molto forte. Infatti poi si arriva proprio alla nudità. C’è questo titolo forte che è senza punto di domanda, perché vorrebbe essere un po’ Ciampiano, vorrebbe essere: “Ora te lo faccio vedere, chi sono io”. Un approccio Livornese.

Bello, mi piace. Concludo con un’ultima curiosità, oltre a suonare hai piacere anche ad andare ai concerti come spettatore? L’ultimo che hai visto?

L’ultimo concerto che ho visto è stato quello di Andrea Appino alla Santeria un mesetto fa, forse…

 

Vabbè ma lì eri… obbligato!

Sì sì! Forse lì ero obbligato (ridiamo, ndr)! No dai obbligato no, ci sono andato volentierissimo. Però ero libero, avevo l’accredito e non dovevo pagare il biglietto, quello di sicuro ha pesato (il tono è scherzoso, ndr). Diciamo che ero invitato, sì.

 

Allora cambio la domanda: ultimo biglietto che hai pagato per assistere ad un concerto?

Aspetta, fammi pensare… era probabilmente un concerto di swing a Milano, sempre in Santeria, a Febbraio. Sono andato a vedere una band di Berlino che fa swing e si poteva anche ballare, all’inizio insegnavano anche qualche passo, e allora ho fatto questa cosa… guarda caso, proprio questo è stato l’ultimo (ride, ndr)! In generale non ho un genere che preferisco, ma ho difficoltà a stare concerti dove il volume è fastidioso, troppo alto.

 

Quindi non andresti a vedere gli Zen Circus!

Probabilmente no (ridiamo, ndr)! Ma sai che ho smesso di essere un fan degli Zen Circus da quando sono entrato nella band? Prima ero fan, e comunque all’epoca facevano molto meno casino di ora. Quindi forse il casino è responsabilità mia (sorride, ndr). Come in passato ho già detto, ai concerti mi capita di annoiarmi, non sempre mi diverto, chissà perché. Un concerto che ho apprezzato moltissimo è stato quello di Kamasi Washington a Umbria Jazz, ma si parla di qualche anno fa, 2017 o 2018. Il problema di chi fa questo lavoro è che spesso quando suonano gli artisti che ti piacciono suoni anche tu. Però a Milano qualcosa sono riuscito a vedere. Ho visto i Killers, i Godspeed you! Black Emperor, i Verdena… L’anno scorso, abitando lì, sono riuscito ad andare ad un po’ di concerti.

 

A proposito, è vero che ti sarebbe piaciuto essere il quarto membro dei Verdena quando eri più giovane?

Esatto, sì! Sarei voluto essere il quarto Verdena, ma poi mi hanno raccontato come trattano il quarto e quindi preferisco essere il quarto degli Zen (ridiamo, ndr). No, scherzi a parte, io con gli Zen mi trovo benissimo, non mi aspettavo questo ingresso e quando me l’hanno proposto sono rimasto molto colpito e mi ha cambiato e stravolto la vita. Sono stati anni anche molto impegnativi, però era quello che volevo da quando ero piccolo, sicuramente.

 

Francesco, ti lascio andare a mangiare, che poi dopo ti intervista davvero Ico.

(ci pensa un po’, poi ride, ndr) Già!

 

Grazie mille per la chiacchierata!

Grazie a te, è stato un piacere.

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