Recensione a cura di Francesca Mastracci
Sarò onesta: trovo sempre molta difficoltà nel recensire gli album di musicisti che amo particolarmente. A maggior ragione se poi si tratta, come in questo caso, della mia band preferita attualmente in vita (e chi ci legge già da tempo sa anche che sono abbastanza restia a lanciarmi verso tali esternazioni totalizzanti). Sta di fatto che comunque di questo disco volevo proprio parlare non solo perché lo reputo degno di nota ma, e forse azzardo un po’ a dirlo così presto, ritengo sia un ottimo candidato per posizionarsi tra le migliori uscite di quest’anno che si è da poco avviato.
Faccio un piccolo passo indietro.
Mi sono innamorata degli Idles nell’estate del 2019 dopo aver visto la loro esibizione a Glastonbury; la performance di “Danny Nedelko” su quel palco fu quanto di più potente avessi visto da tanto tempo a quella parte. Piansi, come da buona prassi quando succede che qualcosa riesce a toccarmi nel profondo, e iniziai a macinare tutta la loro discografia fino a quel momento (Brutalism del 2017 e Joy As An Act of Resistance del 2018, con qualche capatina anche agli EP precedenti). Erano sgangherati, viscerali, intensi, emozionali fino all’osso e i loro pezzi trasudavano messaggi importanti (omofobia, xenofobia, Brexit, antimonarchismo, tossicità dei rapporti) che loro urlavano con tutta la loro rabbia, nel bisogno di farsi ascoltare. Avevano un’urgenza espressiva, sia a livello di lyrics che nell’impostazione sonora, che mi conquistò irrimediabilmente.
Se vi ricordate il video di cui pocanzi e avete iniziato a seguire gli Idles fin dai loro primi dischi forse avrete avuto anche voi qualche remora, lo scorso autunno, quando il quintetto di Bristol aveva annunciato l’uscita di un nuovo disco che si prefigurava essere già a livello programmatico diametralmente opposto rispetto al resto loro discografia. Già Crawler (2021) li aveva spinti ad esplorare nuovi territori sonori e si stava insinuando il dubbio, molto acuito dalla loro inedita risonanza sui social, che lo scintillio mainstream li stesse in qualche modo appannando. Joe Talbot nelle interviste annunciava che si sarebbe trattato di un album interamente dedicato all’amore (ok, poco male, mi sono detta: del resto è una tematica che hanno sempre trattato a modo loro -vedi “Love” del 2018). Poi la notizia che dietro il carrozzone della produzione, oltre al chitarrista Mark Bowen (che ormai si trova in questa veste per la terza volta) ci fossero anche nientemeno che Nigel Godrich (che, nome nomen, è un vero e proprio deus ex machina della produzione – per fare dei nomi: Radiohead, la maggior parte dei progetti di Yorke, qualcosa di Beck e degli R.E.M.) e Kenny Beats (al momento, una delle figure di punta nel panorama dell’elettronica hip-hop).
Interessante combo!
Poi sono usciti i singoli di presentazione e fin da subito è stato chiaro che da TANGK bisognava aspettarsi qualcosa di diverso che trascendeva la matrice prettamente post-punk che li aveva contraddistinti, almeno fino a questo momento. “Dancer”, la degna apripista di queste nuove danze, riprendeva ampiamente le redini di Crawler ma gettava già le basi verso un carattere più sperimentale, con aperture melodiche e danzerecce, grazie anche alla comparsa nei cori di James Murphy e Nancy Whang degli LCD Soundsystem. “Grace” aveva avuto il merito, invece, di portare alle estreme conseguenze il loro concetto di ballad, accennato in “The Beachland Ballroom” (2021) con le sue inflessioni soul, tra l’etereo e lo psych, collocandoli immediatamente su un’altra dimensione. “Gift Horse” aveva invece rimesso le carte in tavola ed era stata quella che maggiormente potevamo indicizzare sotto l’egida del sound degli Idles per come eravamo stati abituati a conoscere. Lanciavano fieri il loro primo “FUCK THE KING” per dare il benvenuto al monarca britannico recentemente salito sul trono e sembrava che nulla fosse cambiato.
Tre singoli, insomma, molto diversi l’uno dall’altro che avevano certamente contribuito ad alimentare l’alone di curiosità che si stava amalgamando denso su questa release.
Poi è arrivato TANGK e nulla è stato più come prima.
TANGK, come ha dichiarato la band, è un suono onomatopeico che riproduce il rumore di una pennata decisa sulle corde. E credo si traduca bene come correlativo oggettivo a suggellare la potenza che è contenuta nelle undici tracce che compongono il disco.
TANGK non è tanto il momento esatto dell’esplosione, come raffigura la sua copertina, quanto piuttosto l’istante immediatamente successivo, quel clangore disorientante che segue il rumore dell’esplosione, trascinando il riverbero secco verso un punto del suono in cui si raggiunge un precario e sublime equilibrio.
Mi ha fatto pensare alle combustioni di Burri, che squarciano ma non annientano, e nella bruciatura mostrano come tutto possa essere in grado di vivere e morire insieme in una sorta di perfetta armonia. Non so se poter definire armonico il sound degli Idles (3.0?) in questa nuova fase della loro carriera, ma certamente possiamo riconoscere che è di sicuro meno dissonante e, questo, ho scoperto alla soglia del millesimo ascolto (ma anche dopo il primo, in realtà) non è necessariamente un male.
Nel loro caso, la nozione di armonia si distende lungo un’asse che li porta a voler sviscerare il fil rouge dell’album in tutte le sue diverse sfaccettature: amore come empatia, pazienza, connessione con l’universo, cura, perdono, costanza. Tematiche già snocciolate nei dischi precedenti, ma cruciali in questa nuova scrittura di Talbot, che dal sociale sposta la sua lente d’ingrandimento sull’individuale e si fa sempre più intima, rallentando l’irruenza per avere più tempo di cogliere i dettagli che contribuiscono a rendere la propria esistenza unica. Non sono meno urgenti le spinte dietro questo lavoro, ma hanno bisogno di più tempo e di un respiro più ampio.
“Love is the thing” (o fing), come apostrofano in “Grace”, è infatti il manifesto di questo loro quinto album in studio. Ma si tratta di un amore che, anche in maniera romantica, riguarda piuttosto l’accettazione e l’autoanalisi come propedeuticità terapeutiche verso un senso più largamente umano dell’amore nei confronti degli altri.
Il disco si apre lento con un ritmo che sembra quasi ricalcare il battito di un cuore. Parte così “IDEA01”, il pezzo che probabilmente mi ha colpita di più anche per la sua posizione in scaletta, con un piano circolare e ripetitivo, venato da vari accenni di elettronica e il crooning di Talbot sofferto e straziante (una delle molteplici dimostrazioni di come il cantautore riesca a piegare la sua voce al servizio dei singoli pezzi). Il piglio cinematico e l’impostazione sonora denotano immediatamente lo zampino di Godrich. È stato letteralmente questo il primo nucleo da cui è partito il sodalizio del produttore con la band ed il titolo è rimasto immutato fin dalla prima bozza.
Tra i vari mantra che si che si ripetono in loop, spicca quello di “Pop Pop Pop”, in quel “freudenfreude” (gioire della felicità altrui) che si annoda a un misto di trip-hop, ambient distorto con screziature UK-garage e industrial-funk. Interessanti dal punto di vista ritmico “Roy” (quasi una fusione di due pezzi in uno con una crasi ardita tra glam rock e soul cadenzato) e “Hall & Oats” (acida, anthemica, stoner). Ma è nei pezzi che maggiormente non ti aspetteresti di trovare in questo disco che, a mio avviso, raggiungono l’apice. Come in “Gospel”, un gioiello di pura rarefazione sospeso a metà della tracklist con la voce di Talbot ridotta, in questo caso, quasi a sospiro mentre si annoda ai fraseggi di piano obliqui che si intensificano progressivamente con gli archi ficcanti a ratificare la sofferta fine di una storia d’amore.
Spostandoci verso la parte finale, il distico di “Jungle” e “Gratitude” avvia il disco alla conclusione con un’ultima incursione nei terreni post-punk dalla muscolatura quasi tribale. Quest’ultima me la immagino perfetta nei titoli di coda della puntata “Free Churro” di BoJack Horseman, laddove Talbot si erge litaniere del proprio funerale e mette in scena un’inqueta declamazione dall’incedere frenetico e a tratti sincopato. “Monolith”, invece, è il degno commiato di questo disco; solo synth e voce: i toni si abbassano di nuovo e diventano lugubri, melmosi, quasi opprimenti fino poi a sciogliersi in calde note di sax, rassicuranti, che spingono l’ascoltatore nell’etere (“who needs wings when I hear you sing?” è la chiusa perfetta di un disco perfetto).
C’è chi si interroga già su quale possa essere il futuro di questi cinque sgangherati di Bristol un po’ più adulti e consapevoli, certamente più attenti a maneggiare la materia sonora che trattano. Credo che il segreto sia nel non aspettarsi niente perché, come ci hanno insegnato, l’autenticità è una questione identitaria e puoi cambiare pelle, dare forma diversa a ciò sei, ma questo non cambia l’essenza della tua arte.
Questa è coerenza. Non continuare a ripetere se stessi, imperterriti, restando impigliati in qualcosa solo perché funziona bene, ma avere il coraggio di evolversi senza snaturarsi. Hanno contribuito a rilanciare il post-punk albionico a livello internazionale. Lo hanno fatto conoscere al mainstream e adesso ci hanno mostrato come lo si destruttura da dentro, prendendone tutte le idiosincrasie e sublimandole con un suono prodotto al puntino. TANGK!
Tracklist:
- Idea 01
- Gift Horse
- Pop Pop Pop
- Roy
- A Gospel
- Dancer with LCD Soundsystem
- Grace
- Hall & Oates
- Jungle
- Gratitude
- Monolith