Recensione a cura di: Davide Capuano
C’è qualcosa di fortemente magnetico nel modo in cui Tyron Kaymone Frampton, in arte slowthai, penetra le orecchie dell’ascoltatore creando un sentimento di scomodo disturbo. Se immaginassimo i suoi testi come un’entità che si muove da un punto di partenza ad uno di destinazione e percorressimo questa traiettoria a ritroso, partiremmo da quella sensazione conturbante fino a raggiungere gli angoli più profondi della psiche tormentata del rapper londinese, assalita continuamente da demoni; un vero campo di battaglia per scontri interiori, sociali, politici che creano un vuoto sotto i piedi da cui, tra ironia e un bagliore di speranza, si riesce comunque a stabilire una felicità generata dal dolore.
Dopo i due ottimi Nothing Great About Britain e Tyron, slowthai ritorna sulla scena con uno degli album più attesi dell’anno, anticipato dai due singoli “Selfish” e “Feel Good” che avevano alimentato l’hype dei fan, soprattutto per la virata stilistica decisa, ma pur sempre d’autore. UGLY non è solo il termine inglese per indicare brutto, ma anche un ingegnoso acronimo (U Gotta Love Yourself) che Tyron ha tatuato sulla guancia e ha scelto di usare come copertina dell’album; ennesima produzione del mago di south London Dan Carey (già accreditato nei lavori più recenti di artisti come Squid, Fontaines D.C., Kae Tempest) che per questo lavoro sposa con maestria la svolta decisa verso un post-punk a tratti aggressivo e claustrofobico dettato dall’artista. Già, perché slowthai non proviene da un’adolescenza facile, non è cresciuto tra gli agi della borghesia e lontano da situazioni degradanti, anzi ci ha sguazzato abbondantemente: per questo il dover amare se stessi non è un atto che nasce dalla tranquillità interiore, ma un urlo che si erge come unica speranza di salvezza in una realtà che troppo facilmente tende a renderlo schiavo dell’infelicità che lui stesso ha coltivato incoscientemente per anni.
“Yum”, la prima traccia dell’album, racconta esattamente del rifiuto di aiuti concreti, screditando il parere di psicologi pur di tuffarsi edonisticamente e senza alcuna misura nelle sue dipendenze da droghe e sesso; lo fa con un beat ruvido ed industrial che sale di ritmo e toglie il fiato all’ascoltatore mentre nei versi finali viene fatto esplodere un urlo liberatorio che apre alla successiva “Selfish”, in cui Tyron guarda con cinica consapevolezza l’individualismo che regola la società, che costringe tutti – lui compreso – a stimare il prezzo complessivo del vivere in un sistema che continuamente alimenta il sentimento di insoddisfazione, in ogni classe sociale (‘We get what we deserve / Somehow, we never learn / Wastin’ lives out on the curb / While we all search for somethin’). Se a questo punto dell’album il nucleo concettuale è già ben definito, quello sonoro si scosta da un noise incalzante ed inizia a virare sul punk che, a conti fatti, si rivela essere la cifra stilistica predominante di tutto l’album: tracce come “Sooner”, “Feel Good”, “HAPPY” aprono addirittura ad un’inaspettata orecchiabilità che infonde allegria, ma è una positività che cavalca con amareggiata ironia tutto il dolore passato da Tyron, che riecheggia in alcuni momenti di lucidità (Sometimes I run away, so I can feel free / How far can my feet take me before they bleed? / How far can my feet take me so I can feel free? / I wanna run away / How far can my feet take me before they bleed? / How far is too far?).
In questo ironico contrasto tra tematiche e sonorità si rivela l’abilità di slowthai nel lasciare aperto quel canale che porta diretto alla sofferenza che esplode in maniera lacerante come in “Falling”, brano di piena matrice post-punk contemporanea, o in un conturbante dialogo interiore con il suo peggior nemico, la vocina che lo sminuisce e lo ostacola in qualsiasi intenzione in “Fuck it Puppet”. Tyron però è in conflitto anche con tutto ciò che intorbidisce la comprensione e l’empatia nella società, ringhia punk contro chi ridicolizza chi si trova in situazioni grottesche, vittima di abuso o violenza (“Wotz Funny?”), si scaglia contro tutti i modelli di esaltazione estetica e di mascolinità tossica nella title-track, in collaborazione con i Fontaines D.C., che arricchiscono la lista di partecipazioni insieme a Taylor Skye (Jockstrap) e Shygirl; si lascia andare in un climax di disperazione nella toccante “Tourniquet” che nel suo crudo finale dipinge perfettamente la sua sofferenza prima di culminare in un finale inaspettatamente dolce (“25% Club”), in cui l’amore è chiamato ad essere la risposta a tutto questo spaventoso vuoto e l’ago di un nuovo equilibrio interiore (“Ooh, what is real? / I had a vacancy you can fill / We both have to break like porcelain plates /But I got some glue so we can rebuild, ooh”), ma quanto sarà stabile il risultato di questo processo di ricostruzione?
slowthai ci lascia con questo interrogativo, frutto di un’anima capace di mettere nero su bianco tutta l’irruenza dei contrasti che vivono in lui; dipinge senza usare mezze misure i mostri che lo hanno messo in ginocchio, ci rende capaci di riconoscere nitidamente i contorni del dolore che lo affligge e che ci circonda tutti i giorni: UGLY è un mattoncino molto significativo nel percorso di un’artista che sta diventando sempre più inconfondibile, un lavoro che attraverso un’autoanalisi viscerale si appresta a diventare generazionale ed identificativo di un momento storico di profondi conflitti, interiori ed esteriori, individuali e collettivi.
TRACLIST:
- Yum
- Selfish
- Sooner
- Feel Good
- Never Again
- Fuck It Puppet
- HAPPY
- UGLY
- Falling
- Wotz Funny?
- Tourniquet
- 25% Club
Voto: 8