Premere play. Chiudere gli occhi, in una notte di fine estate, sul balcone di un monolocale in provincia, con le cuffiette nelle orecchie e tutto il mondo fuori lontano, sempre più lontano, quasi inesistente. Nella mente prendono forma solo muri di suono spessi come insormontabili macigni e al contempo dolci come il pensiero di un ricordo.
Per il primo ascolto dell’ultimo lavoro in studio dei Deftones ho seguito l’iter proposto dalla band per il lancio del disco avvenuto attraverso immersive listening sessions al buio in giro per il mondo, nel privato di un’esperienza che per qualche minuto ci aliena da un’umanità, social troppo social azzarderebbe dire qualche filosofo tedesco, permettendo di riconnetterci con noi stessi.
A distanza di una settimana dalla sua uscita, dopo questo ascolto ne sono seguiti innumerevoli altri e faccio sin da subito una premessa: mi trovo d’accordo con quanti lo hanno accolto come uno dei migliori lavori della band almeno da una diecina di anni a questa parte (e a scriverlo è una che Gore del 2015 lo ha anche abbastanza consumato).
Sta di fatto che dopo la prova visionaria ma un po’ inconcludente di Ohms del 2020, si era creato forte hype quando qualche mese fa era comparso un serpente albino aggrovigliato su uno sfondo verde (molto poco brat) ad annunciare l’uscita di nuovo disco sui profili della band di Sacramento, complice anche la cassa di risonanza social (per l’appunto!) che li ha traghettati verso un pubblico giovanissimo grazie a pezzi di quasi vent’anni fa riscoperti improvvisamente instagrammabili per le stories. È il trend, gira bene gira male, non lo sai, ma ci finisci dentro.
Che la band fosse in forma smagliante, però, era stato evidente dai vari live che nell’ultimo annetto hanno proliferato in giro per il mondo (compreso il Primavera Sound di cui siamo stati testimoni). Ma era stato l’annuncio che in cabina di regia sarebbe tornato Nick Raskulinecz, già produttore di Diamond Eyes (2010) e Koi No Yokan (2012), che ci aveva fatto ben sperare. Poi sono arrivati primi singoli nei mesi scorsi a rendere ulteriormente inequivocabile il fatto che da questo lavoro c’era da aspettarsi grandi cose: l’irruenta “my mind is a mountain” ha avuto il compito di rompere il silenzio partendo in piacchiata, quasi in medias res potremmo dire, con un’iniziale tirata di batteria portentosa a riprendere le fila esattamente da dove erano state lasciate e “milk of the madonna” che si candida già come uno dei grandi classici senza tempo della band.
Riuscire a descrivere nel complesso private music non è semplice. Abbiamo di fronte una delle band più difficili, per propria natura costituzionale, da etichettare secondo i termini canonici di un genere. Certamente, hanno contribuito a lanciare quello che viene definito in maniera abbastanza massimale come nu metal – che poi, nel loro caso, in realtà altro non è che un’elegante e raffinata commistione tra heavy metal, new wave, post rock e shoegaze, con immancabili incursioni rap e divagazioni sintetiche. Il risultato è un crossover che non può essere replicato e che conferisce ai dischi dei Deftones quel loro appeal quintessenziale. Merito anche della voce di Chino Moreno, inutile negarlo. Effettata, strascicata, a tratti acida a tratti ovattata, granitica anche, ma con i controcanti che sanno essere un cuscino morbido su cui schiantarsi. E certo, merito anche della sinergia stretta tra i riff sferraglianti di Stephen Carpenter e alla batteria marziale e portentosa di Abe Cunningham, conditi dall’ingresso nella band di Fred Sablan che regala degli ottimi groove di basso morbidi e progressivi.
Al netto di tutto, private music suona esattamente come un disco dei Deftones suonato dai migliori Deftones. C’è chi ne ha colto una vena sperimentale innovativa, che onestamente credo sia semplicemente espressione di un modo (non troppo) nuovo di celebrare la stratificazione sonora che ha da sempre caratterizzato la loro discografia, in quella fusione di ruvidezza e dolcezza che lambisce impeto, sofferenza, malinconia ma anche una certa ricerca, persistente e ostinata, di luminosità armonica. Cercando si sviscerare questo decimo album, che esce per Reprise/Warner Records, potremmo definirlo sinuoso e pieno di spire come il serpente che campeggia in copertina (il terzo nella sequela della fauna bianca scelta dalla band come album cover dopo White Pony del 2000 e Diamond Eyes del 2020).

Spietate e dolcissime, le trame sonore su cui poggiano le undici tracce restano sospese tra sussurri dilatati, coltri di riff imponenti e un drumming incisivo che ne scandisce la progressione ritmica punteggiandola di continuo con rifrazioni sintetiche avvolgenti e trasognate. Niente di particolarmente inedito, è vero. In questo disco sfilano infatti tutti gli stilemi che hanno caratterizzato il sound della band nel corso di questi trent’anni di onorata carriera. Ma non c’è niente di stantio in private music, anzi. Ogni dettaglio è pervaso da una matrice emozionale molto ficcante che viene restituita ora dalle esplosioni di batteria (come in “my mind is a mountain”) ora dai synth effettati che segnano l’interplay fluido di melodie eteree e sferzate elettriche (come in “ecdysis”), ora anche nelle sincopi soverchianti (di “infinite source”). O anche nelle incursioni rap che tanto piacciono a Chino Moreno (di cui è pervasa “cut hands”) o nei deliri onirici che condensano tutte le asperità compresenti del disco (“~metal dream”). E come non menzionare, inoltre, quei pezzi in cui la notte diventa protagonista e si sente forte che proprio sotto la volta stellata nel mezzo del deserto di Joshua Tree molti di essi hanno preso forma per la prima volta. C’è la coda darkwave di “souvenir” che si riversa completamente in “cXz”, tinteggiandone l’intelaiatura con i suoi toni scuri pieni di profondità e definizione; c’è la ballad morbida e dannatamente malinconica “I think about you all the time”; e, infine, sembra quasi di essere pervasi dall’etere nella conclusiva “departing the body” che, come è stato notato, ha un sapore vagamente tooliano.
private music segna un nuovo importante capitolo per i Deftones, consacrandoli nei cuori di chi già li venerava e facendone scoprire la grandezza in chi li conosceva solo per i 30 secondi o poco più di “Change (In the House of Flies)”.
Noi lo abbiamo già messo nella nostra lista dei migliori dischi del 2025.
TRACKLIST:
- 01. my mind is a mountain
- 02. locked club
- 03. ecdysis
- 04. infinite source
- 05. souvenir
- 06. cXz
- 07. i think about you all the time
- 08. milk of the madonna
- 09. cut hands
- 10. ~metal dream
- 11. departing the body