Nell’interregno tra empi e beati, la cultura ellenica riteneva ci fosse una distesa immensa di fiori di asfodelo, una pianta impestante ma dalle radici commestibili e con fiori bellissimi. I Greci antichi li associavano alla morte e alla purificazione.
Questa premessa, forse non troppo necessaria, per riallacciarmi al titolo dell’ultimo lavoro in studio della band di cui questo live report intende parlare. Il disco in questione, Asphodels per l’appunto, segna il settimo capitolo sulla lunga distanza della band anglo-neozelandese The Veils, capitanata da Finn Andrews.
Per la tappa romana del tour, i Veils hanno scelto di esibirsi sul palco del Monk, che in questo periodo sta proponendo la formula del “concerto presto” durante i fine settimana, aprendo la sala nel tardo pomeriggio per iniziare i live alle 19,00 tassative. Non ho ancora ben capito se è una formula che ben si adatti ai ritmi della città, ma sta di fatto che alle sette in punto il locale era già quasi pieno, mentre in apertura saliva sul palco Dario Sansone (cantautore, illustratore e regista, ex frontman dei Foja) che presenta alcuni dei brani del nuovo lavoro in uscita nei prossimi mesi, senza tralasciare i pezzi che lo hanno fatto apprezzare dal pubblico (che li richiede ad ampia voce nel bis).
Dopo mezz’ora, si è già pronti al cambio palco e alle 19,45 sale in scena la figura slanciata con il capo coperto dall’immancabile cappello a tesa larga di Finn e dietro di lui la schiera di musicisti che lo accompagna.
La parentesi sul titolo del nuovo disco fatta in apertura mi consente, in effetti, a questo punto di connotare i tratti di un live onirico, in cui il tempo e lo spazio sono apparsi desemantizzati per tutta la durata del concerto, restituendo una profondità rarefatta e brumosa. Un limbo in cui l’eterno gioca costantemente con l’oscurità, tenendo il pubblico sospeso tra dolci carezze malinconiche e abbracci dalla sensualità squisitamente torbida.
L’aspetto evocativo dei testi e del suono si liquefà in un’atmosfera chiaroscurale cosparsa da luci soffuse nei toni del rosso e del blu, in cui prende consistenza l’immaginario fatto di richiami classici o fortemente allegorici. Basta solo scorgere i titoli del loro catalogo per farsi un’idea. E sembra davvero che tutto questo si materializzi nella dimensione live più di quanto non accada nei dischi, merito anche dell’eleganza del cantante che con il suo sguardo algido e le lunghe dita affusolate tira le fila di un’ipnosi estatica con la quale ammalia tutti i presenti. Ovviamente, merito anche di un registro vocale caldo e strascicato.
A livello performativo in generale, sono rimasta positivamente sorpresa dall’estro esecutivo di tutti i musicisti, che hanno saputo unire i vari brani della cospicua discografia, inanellando una setlist abbastanza variegata dove è stato tuttavia centrale l’ultimo disco (già a partire dal quadrittico di apetura con “Mortal Wound”, “The Dream Of Life”, “The Ladder” e “O Fortune Teller”). Ma tra le armonie più essenziali e le orchestrazioni dal respiro lento e solenne che cospargono di oscura bellezza Asphodels, si diramano le apprezzatissime incursioni al passato. E ci si lascia coinvolgere dalla sensualità dolente di “Swimming With Crocodiles” (stavo aspettando trepidante la title track di quel disco, Total Depravity, ma mi è andata bene anche così), dall’elettronica spigolosa e incalzante di “Here Come The Dead”, negli zampilli di chamber folk avvolgente su “Not Yet”. Ma anche il blues tribale e distorto di “Jesus For The Jugular”.
Dopo una brevissima uscita di scena, l’encore si apre con una ballata malinconica e suadente dai toni acidulati, “Lavinia”, tratta dal loro primissimo disco, The Runaway Found, a cui segue immediatamente dopo “The Tide That Left And Never Came Back” che insieme a “Nux Vomica” decreta l’amplesso finale, catartico. Tra linee di basso sincopate, chitarre angolari e sfuriate ritmiche inquete e instabili si cristallizza una profondità sonora satura che si scioglie nella conclusiva “Axolotl”, brano elettro-pop dal gusto barocco e fortemente disturbato, tanto apprezzato anche da David Lynch che ne ha voluto inserire un’esibizione live in Twin Peaks.
Un bel concerto tirato tutto d’un fiato per circa un’ora e mezza, senza molte parole se non qualche ringraziamento tra un pezzo e l’altro. Forse per non spezzare la malia.