Cedere alle onde del destino, ora in piena,
mentre il sole in cielo inciampa su se stesso
Hai scritto sul mio corpo che non è la fine
Oggi parliamo di qualcosa di diverso rispetto al solito.
Oggi vi raccontiamo cosa vuol dire vedere la Storia di un genere salire sul palco ed annientarlo; assistere per la prima volta come fosse l’ultima ad un rito collettivo che porta a rivivere la scena screamo/post-hardcore italiana con un flash-backward di circa vent’anni e sentirsi, conseguentemente, parte di un contesto di condivisione che trascende il tempo e lo spazio.
Il tutto ovviamente condito da un carico emotivo non indifferente.
Ma andiamo con ordine.
Del 2024 in exitu ci ricorderemo sicuramente dell’amarezza dei risultati delle presidenziali americane, dell’apertura della porta santa a San Pietro dall’ormai ex papa (rip) per il giubileo, della vittoria di Samantha Harvey al Booker Price con il romanzo Orbital e della notizia inaspettata, ma da alcuni presagita, che i La Quiete si sarebbero riuniti dopo circa dieci anni di assenza dalle scene. Il pretesto sarebbe stato la celebrazione del ventennale dell’uscita di uno dei dischi più seminali dell’emocore italiano (e non solo, perché con i La Quiete abbiamo raggiunto una discreta notorietà anche all’estero): La fine non è la fine, rimasterizzato per l’occasione da Will Killingsworth.

Un lavoro importante, essenziale, pesante come un macigno, che ha segnato per molti di noi un vero e proprio termine imprescindibile sotto cui derubricare la sequela di gruppi che da quella subcultura in fermento nei primi anni Zero avrebbe preso forma, anche a distanza di anni. Il loro primo e unico disco sulla lunga distanza, assente sulle maggiori piattaforme di streaming fino a qualche mese fa, che noi abbiamo consumato sui dischi, recuperati dai più fortunati in qualche banchetto, o su youtube e vari siti di nicchia. C’è chi negli anni quel titolo se lo è tatuato davvero sulla pelle (come la sottoscritta), quasi a voler rimarcare in maniera ancora più esplicita quella che può essere considerata a tutti gli effetti una dichiarazione d’intenti o un pedigree di appartenenza.
La reunion della band inizialmente avrebbe dovuto toccare solo due date: 10 aprile al Locomotiv di Bologna (che a distanza di poche ore dall’annuncio è andata sold-out, facendo aggiungere le due date di recupero il giorno prima al Freak Out) e l’11 aprile al Bloom di Mezzago. Per cause di forza maggiore, ho dovuto cedere il mio biglietto per la data di Bologna, piena di speranza che sarebbero uscite altre date in giro per l’Italia. E così è stato. Per una volta, grazie karma!
In una domenica di fine maggio, la sala concerti del Monk si fa scenario di uno degli ultimi concerti indoor della stagione, proponendo la formula del “concerto presto” che comunque lascia sempre un po’ restio il pubblico romano. Bella l’idea di iniziare e finire i live ad un orario decente, ma i ritmi della città capitolina, soprattutto nel weekend, non rendono l’esperienza particolarmente agevole. Tant’è che, di rimando in rimando, alla fine i live sono ufficialmente iniziati un’ora dopo rispetto all’orario stabilito per permettere al parterre di riempirsi.
Ad aprire le danze sono stati i Reverie, band screamo di origini emiliane fresca di split con i Put Pùrana, che carica bene chi è già sottopalco e richiama il pubblico che ancora a fatica si avvicina all’entrata.
Segue una band totalmente folgorata (in accezione positiva) e folgorante (idem come prima con patate): i Serpe Terror, un duo che mette in scena una detonante commistione di techno/hardcore/screamo. Se non li conoscete, vi consiglio di recuperarli.
Poco dopo le 21,00 arriva finalmente il momento che tutti stavamo aspettando. Salgono i La Quiete sul palco e immediatamente si ha la sensazione di essere sommersi in maniera pervasiva dai suoni che escono dalle chitarre dissonanti di Andrea e Cebio, dal basso portentoso di Angelino, dalla batteria devastante di Michele, e dalla voce di Fulvio che ci urla addosso emozioni e stati d’animo che ancora dopo vent’anni portiamo (e probabilmente porteremo per sempre) inscritte sottopelle.
Quei testi articolati, affatto facili da memorizzare, ma pieni di una ricercatezza stilistica e arguti richiami intertestuali, aggrappati a titoli altrettanto impossibili che sono sempre stati un loro valore aggiunto. Insieme alle sezioni ritmiche che declinano al plurale il senso di progressione. Le chitarre arpeggiate come carezze o sferzate come tagli. Fotografie verbali e sonore di un malessere esistenziale che lambisce la malinconia, si culla nel disincanto e diventa polvere, esplondendo nel vuoto dell’anima.
Partendo, un po’ prevedibilmente, da “Raid aereo sul paese delle farfalle” la scaletta non si è limitata solo al disco sopracitato, ma ha inframmezzato altri singoli usciti successivamente (come “Greyskull”, “Giugno”, “La maestra non sa che Iliich mi ha parlato del programma occulto”) per un totale di un’ora piena. Senza troppe parole, solo squarci di emozioni.
C’eravamo di ogni fascia d’età sotto quel palco ed è stato incredibilmente bello che per una sera il poserismo del pubblico giovanissimo della nuova leva si sia fatto da parte per tornare a venerare il pogo nel suo aspetto più primordiale e autentico: essere prima di tutto condivisione.
Grazie La Quiete. Per questo concerto e per aver definito quello che eravamo e quello saremmo stati.