Look twice into my own mirror on second glance at myself
Cut the tension with scissors, I’ll leave the knife on the shelf
The price we pay for connection in a distant life.
(A Distant Life)
Qualche mese fa, quando li avevamo incontrati a Milano poco prima del loro concerto in apertura a Nick Cave, si erano lasciati sfuggire qualche dettaglio in merito al nuovo disco che avevano da poco finito di registrare. Seppur mostrandosi intenzionati a voler mantenere intatta una certa estetica compositiva, ci avevano comunicato che a livello strutturale c’erano state sostanziali modifiche nel loro modus operandi. (Potete recuperare l’intervista completa qui, ndr).
Ed infatti Blindness, terzo lavoro in studio della band irlandese The Murder Capital, ce li fa ritrovare a due anni di distanza da Gigi’s Recovery con un disco che mette da parte le elucubrazioni meticolose che avevano intarsiato il capitolo precedente per focalizzarsi invece sull’immediatezza e l’urgenza espressiva. Scritto tra Londra, Dublino e Belino in una diecina di giorni e registrato in tre settimane di lavoro intenso a Los Angeles sotto l’egida di John Congleton (nuovamente al loro fianco in veste di produttore), il disco si presenta in tutta la bellezza autentica della sua violenta intuizione.
Allo stesso tempo, niente sembra essere lasciato al caso: decisi più che mai a definire una loro personale cifra stilistica che non venga meramente ridotta ad essere etichettata come post-punk, i Murder Capital ci regalano un’opera che li consacra ulteriormente e traccia ben chiare le coordinate che la band vuole intraprendere.

La scrittura di James McGovern, incredibilmente ispirata e puntuale anche in questa occasione, si stacca dal lirismo soggettivo che lo aveva portato a sviscerare i recessi della sua anima nei lavori precedenti per farsi testimone stavolta di realtà panottiche, sociali, condivise, scrutate con occhi attenti a non perdere di vista i pericoli di una cecità endemica che minaccia l’umanità con i suoi livori. In ciò, il disco è una presa di posizione netta verso tutto quello che non si può più fingere di non vedere, ricollegandosi al romanzo omonimo di Saramago (Cecità, 1995) di cui neanche troppo velatamente raccoglie l’eredità.
Le undici tracce percorrono con lucida e disarmante consapevolezza una sensazione di ineluttabilità legata alla vita in questo preciso momento storico tra alienazione tecnologica, precarietà, ansia sociale e avversione ostinata verso ogni tipo di diversità culturale. “Love Of Country” ad esempio esplora il labile confine tra patriottismo e nazionalismo xenofobo: il verso nel ritornello “Can you blame me for mistaking your love of country for hate of man?” può essere considerato il manifesto dell’intero disco (la frase era stata inserita dal gruppo all’interno di un murales comparso a fine dicembre nel quartiere dublinese Chatham Row, a fianco di una bandiera palestinese). Con il suo andamento blueseggiante sostenuto dal suggestivo strumming, il pezzo è stato registrato nell’interezza dei 6 minuti che lo compongono in totale presa diretta per rimarcarne l’impatto incisivo.

Se l’esordio (When I HaveFears del 2019) li aveva visti esplorare le proprie zone d’ombra inquiete e plumbee, Gigi’s Recovery era stato un tentativo poi di trovare equilibri ritmici che modulassero sul piano sonoro un gioco charoscurale tra luminescenze ed oscurità. In questo disco, al contrario, i riflettori si accendono in maniera folgorante sui suoi cunei umbratili, finendo per rivelarne tutta la loro tridimensionalità più buia. Solo chi finge di essere cieco può non vederli.
Sospeso tra intimità e assenza, impeto e riflessività, Blindness decostruisce cortine sonore fatte di cacofonie sinistre, frammenti melodici, slanci stridenti e pulsazioni evocative. Anche la voce baritonale e suadente di McGovern si lascia trasportare in modo inedito in un’interpretazione più di getto che si modula tra graffi estatici, languidi mormorii e sussurri obliqui.
Al fianco di brani che vibrano per la loro esplosività deflagrante con una progressione ritmica sempre sul punto di deragliare in vertigini sincopate (come l’opener “Moonshot” che avvia il disco in maniera ineccepibile, il primo singolo estratto “Cant’t Pretend To Know” o “The Fall” con il suo intrecciarsi di ritmi sostenuti e chitarre sferzanti che accompagnano la minacciosa reiterazione del verso “the fall is coming”), troviamo anche aperture verso un vago accenno al funky scanzonato (in “A Distant Life”) o dinamiche up-tempo dal sapore art-punk (in “Death Of A Giant”, scritta subito dopo il corteo funebre in memoria del compatriota Shane McGowan, nume tutelare della band).
Non mancano anche ballatone crooner dal sound oscuro e ricco di fascino che lambiscono il glam-rock (come “Swallow” e la finale “Trailing Wing” con i suoi fraseggi caldi, quasi rasserenanti). Ma tra i capitoli in cui la band raggiunge maggiormente l’apice, bisogna annoverare quei momenti in cui i riff si fanno ora fumosi ora frastagliati, delineando un sound inquieto che colpisce per la malinconica dolcezza con la quale esalta lo straniamento (come la più carazzevole “Words Lost Meaning” o la tagliente “That Feeling” con un finale catartico estremamente incisivo in cui compare il loro ormai caratterizzante tamburello).
Infine, un disco penetrante e coraggioso che non ha paura di mettersi in gioco e non vuole nascondersi dietro la propria vulnerabilità. La copertina ad opera dell’artista svedese Viktor H. epitomizza bene il carattere puramente istintuale e autentico di questo disco che, già ci sentiamo di dirlo, sarà uno dei nostri top album 2025.
TRACKLIST
1.Moonshot
2.Words Lost Meaning
3.Can’t Pretend To Know
4.A Distant Life
5.Born Into The Fight
6.Love Of Country
7.The Fall
8.Death Of A Giant
9.Swallow
10.That Feeling
11.Trailing A Wing