Day One (A cura di Francesca Mastracci)
Giocando di parallelismi, se la stagione dei festival internazionali outdoor in Europa viene tradizionalmente aperta dal Primavera Sound di Barcellona, a chiudere le fila ci pensa ormai da qualche anno il nostrano Spring Attitude, che del festival catalano ha preso ispirazione non soltanto per il nome, ma anche per la disposizione attigua dei due palchi posti uno di fianco all’altro, perlomeno nelle sue ultime due edizioni.
Per il terzo anno di fila, la cornice degli studi cinematografici di Cinecittà si conferma essere la location perfetta per accogliere un festival che nei suoi tredici anni di vita ha visto una crescita esponenziale, consacrandosi sempre di più come uno dei migliori nel nostro Paese, e non solo. Proponendo una line-up eterogenea che abbraccia vari generi e stili musicali, anche in questa edizione si è mantenuta una sorta di coerenza logistica che ha unito a filo stretto elettronica, alt-rock, post-punk, cantautorato, shoegaze e sperimentazioni ad ampio raggio.
Causa maltempo imperversante e congestione sul raccordo, la nostra giornata del venerdì si è aperta un pelino più tardi rispetto all’avvio effettivo, che comunque si è svolto sotto una pioggia che inizialmente non accennava a volersi fermare.
Ma lo Spring ha sempre avuto na certa intransigenza a rispettare le tempistiche, e quindi imperterreti si inizia tra k-way e ombrelli colorati sotto il cielo di Roma scrosciante con RBSN, Film School e Marta Del Grandi.
Noi entriamo in punta di piedi sulle note di Marco Castello, cantautore siciliano portato in auge circa tre anni fa da Erlend Øye (dei Kings of Convenience) che lo ha coinvolto con la sua Comitiva, facendolo conoscere al grande pubblico. Funk dai toni caldi , groove piacevole e accenni jazzistici che lambiscono gli stacchi acustici in cui, chitarra in mano e poc’altro, Castello riesce a coinvolgere il pubblico con i colori degli ultimi sprazzi di sole che fanno capolino finalmente dietro le nuvole ad inondare di luce l’atmosfera che sta decollando.
Poco prima, però, che dall’altro lato del palco, sullo stage Molinari, cali improvvisamente l’oscurità silenica e ammaliante sulle note di Daniela Pes. Questo era uno dei set che stavo aspettando maggiormente perché, dal suo esordio lo scorso anno con Spira (prodotto da Tanca Records, l’etichetta fondata da Jacopo Incani – aka Iosonouncane, ndr), avevo collezionato svariati racconti di persone che mi avevano descritto i suoi live come performace straordinarie dalle quali si restava rapiti. Non avevano torto.La cantautrice si lancia in suite impetuose quanto contemplative, destreggiandosi dietro il suo pad con movimenti morbidi e ondeggianti, dando l’idea di una piovra che stende il tappeto della sua salmodia lisergica, quasi ultraterrena. O forse talmente tanto terrena da essere radicata nella terra (la sua terra, la Saredegna) in modo primitivo quasi, ancestrale.
Da brividi.
Si spengono le luci per riaccendersi poco dopo sullo S/A Stage dove campeggia un pegaso tra nuvole rosa. È il momento che molti dei presenti stavano aspettando. Sale sul palco Cosmo “sulle ali del cavallo bianco” (come il titolo del suo ultimo album). C’è poco da fare, il cantauore eporediese sancisce dal momento esatto in cui fa il suo ingresso in scena la sua comprovata maestria nel condurre un’esperienza performtaiva con tutto l’ensemble di musicisti, dj e ballerine che lo accompagnano.
Il suo live si presenta estremamente stratificato. Si balla, si vola, ci si lascia invadere dalla malinconia e si prende posizione (è l’unico che esibisce la bandiera palestinese sul palco), tra spinte elettro-dub, flow melodici synth-pop, adagi ambient e vanature cantautorali. Un set energico e senza cedimenti che ha coinvolto chiunque, travalicando di gran lunga le aspettative di chi, da non fan, non aveva idea di trovarsi di fronte uno spettacolo del genere (ogni riferimento personale potrebbe non essere casuale).
La seconda tranche della serata, quella che si è svolta prettamente da dietro la console si apre con il djset del produttore scozzese Barry Can’t Swim alias Joshua Mannie (nella sua unica data italiana). Si viene immediatamente catapultati in circoli ipnotici compatti e avvolti dai colori pieni delle visuals. Con precisione chirurgica, il produttore si lancia verso una rincorsa all’ultimo beat, ricreando l’atmosfera propulsiva da clubbing in una notte di fine estate con l’umidità che è penetrata a tuuti fin nel midollo.
Cambio registro per l’elettronica più ostica e e stralunata del milanece MACE, che si esibisce in un set ambizioso e ricercato, fatto di ipnosi ossessive e avvolgenti bordate che tracciano, costantemente, imprevedibili cambi di direzione, oscillando tra deep-house e dub-techno. Incredibili le visuals che si muvuono fluttanti dietro di lui che tira dritto dall’inizio alla fine, in un cresendo di beat notevole.
Peccato esserci persi il set dei Blaze in chiusura, ma l’ora tarda e gli impegni lavorativi del giorno seguente ce lo hanno reso impossibile.
Day Two (A cura di Daniele Maldarizzi)
La seconda giornata del festival romano si apre con Anna e Vulkan, duo napoletano che setta subito il mood della giornata portando sullo S/A stage una miscela di disco, neapolitan funk (genere tornato nel mainstream dopo l’esplosione del progetto Nu Guinea) e indie in una formazione che prevede chitarra, tastiere e basi pre-registrate. Purtroppo il duo si esibisce praticamente senza pubblico iniziando il concerto alle 15.55 appena dopo l’apertura porte e chiudendo con un brano in collaborazione con il collettivo Fuck pop.
Subito dopo, spostandoci di qualche metro a sinistra, ascoltiamo Gaia Morelli sul Molinari Stage suonare i brani del disco d’esordio La natura delle cose eseguiti in chiave più Rock/ Alternative causa mancanza del tastierista.
Il parterre comincia a riempirsi per il concerto dei Fat Dog, gruppo inglese che con il suo Techno/Dance/Klezmer/Punk saluta Roma con “Hello Wembley! (?)” e fa pogare per 40 minuti pieni il pubblico sotto palco, la formazione è molto simile a quella dei Viagra Boys in cui sentiamo un sax tenore a rinforzare le parti già violentissime di drum machine. La band, per la prima volta in Italia, chiude il set con “Running” singolo estratto dall’album “WOOF.” trascinandoci in un ultimo, sfiancante circle pit. Esco stremato da questo set (ed è solo la 3° band) mentre di fianco inizia immediatamente Emma Nolde, per me una sorpresa davvero notevole avendone sentito solo parlare (molto bene) senza però avere mai ascoltato nulla. L’artista toscana suona una varietà di strumenti acustici ed elettronici (chitarra elettrica, tastiere, drum machine, tamburello, sequenze) prima da sola poi in trio con violoncello e sax rivelandosi una delle realtà più interessanti del panorama italiano.
Rimaniamo in Italia con i Bobby Joe Long’s Friendship Party, band di Roma Est tra il grottesco, il demenziale, dark wave e Franco Califano, l’Oscura Combo Romana si esibisce in maschera capitanata dal cantante Henry Bowers raccontando storie della periferia romana e dei momenti più oscuri del nostro Paese. Senza un attimo di pausa, cambio palco e sul Molinari Stage ecco una delle band più attese del festival, i Bar Italia già a Roma poco meno di un anno fa e freschi delle loro ultime uscite “Tracey Denim” e “The Twits”; purtroppo (forse per le mie alte aspettative) mi deludono abbastanza sembrando anonimi, lontanissimi da ciò che si ascolta su cd per la maggior parte della performance, riprendendosi un po’ negli ultimi pezzi più improntati sullo shoegaze. La band lascia il palco senza salutare lamentandosi delle luci (?) e dell’impossibilità di suonare l’ultimo pezzo.
Per fortuna Motta riporta tutto su altissimi livelli con una band impressionante alle spalle: Roberta Sammarelli, Whitemary, Giorgio-Maria Condemi, Davide Savarese, Francesco Chimenti, Andrea Appino e Danno (ultimi due per il brano “Minotauro”). Il live viaggia tra cantautorato, post rock, noise, indie… veramente impressionante! Finito il bagno sonoro con “Ed è quasi come essere felice” si continua a pogare con i devastanti Viagra Boys, a mio parere la miglior live band al mondo, il gruppo svedese, anzi L’UNICO gruppo svedese suona per più di un’ora a ritmo serratissimo mentre tra la folla succede di tutto, migliaia di spettatori che saltano, crowd-surfano mentre dal palco scendono Elias Jungqvist e Oskar Carls (tastiere e sax) per unirsi a questa follia. Dopo un intermezzo free-jazz/ noise i Boys chiudono il concerto con una versione allungata di “Research Chemicals”.
Passa qualche minuto e vediamo finalmente i Mount Kimbie, anche loro per la prima volta a Roma in un tour che li ha portati nei maggiori Festival mondiali con una formazione ampliata (il gruppo originale nasce dal duo Kai Campos/ Dom Maker, qui li vediamo accompagnati da Andrea Balency-Béarn voce ed elettronica, Marc Pell alla batteria, Tyra Ornberg al basso). Con loro l’atmosfera cambia completamente diventando rilassata e distesa, un mood che appartiene più all’ultimo The Sunset Violent rispetto ai lavori precedenti vicini alla club music dell’undergound inglese.
Finito questo splendido live inizio ad allontanarmi dalla “zona transenna” mentre a pochi passi c’è Whitemary con il nuovo progetto New Bianchini Soundsystem che, a differenza dell’ultima volta sul palco dello Spring è sola circondata da synth e drum machines illuminata da visuals psichedeliche. C’è poco spazio per i brani di Radio Whitemary di cui sentiamo frasi e citazioni inserite nei nuovi pezzi ancora inediti. Per me la serata finisce con i Kiasmos, duo formato dal pianista Ólafur Arnalds e Janus Rasmussen, che portano il pubblico del festival in un trip spaziale con la loro “musica per piangere sul dancefloor” tra techno e ambient. Concludo così una delle esperienze musicali più belle degli ultimi anni, lo Spring Attitude si riconferma una realtà tra le più importanti del territorio nazionale per line-up, venue ed organizzazione generale.
photo courtesy dell’immagine in copertina: Spring Attitude