Recensione a cura di Francesca Mastracci
Tra ritrovi di vecchia data e nuove scoperte, siamo arrivati ormai a metà anno e, con una punta di audace sfrontatezza, ora possiamo iniziare a fare declamazioni che qualche mese fa forse sarebbero risultate premature. Dogsbody del quartetto di Brooklin Model/ Actriz con molta probabilità si aggiudica il primo posto in lizza per miglior esordio di quest’anno. Normalmente non cedo alla lusinga di fare declamazioni del genere, ma con cognizione di causa e con netto ritardo rispetto alla sua uscita, mi approccio alla recensione di questo disco dopo averlo ampiamente consumato. E proprio perché ne riconosco, ad ora, tutto il suo potenziale credo sia importante riservargli il giusto spazio che merita.
Partiamo da questi quattro musicisti eccentrici e performativamente conturbanti che si erano già fatti notare con i tre EP pubblicati a cavallo tra il 2016 e il 2017, ma avevano ottenuto una certa attenzione grazie alle due tracce del 2020 “Suntan” e “Damocles”. Dopo tre anni di silenzio, Cole Haden e soci tornano sulle scene con un disco che già al primo ascolto colpisce per la prepotenza espressiva con cui si articola. E, attenzione, perché il deus ex machina dietro questa produzione è Seth Manchester (Daughters, Lingua Ignota, Liturgy, Battles).
Leitmotiv del disco, come annuncia anche la rappresentazione fallica edulcorata in copertina, è la sessualità, passata in rassegna secondo le sue molteplici declinazioni, con particolare enfasi sugli aspetti morbosi, a tratti anche abusanti, che una relazione amorosa può innescare.
Vi capiterà sicuramente, o forse vi sarà già capitato, di leggere il loro nome accostato alla scena post-no wave americana, in primis ai Liars (di cui ereditano in maniera abbastanza prorompente anche un’estetica avanguardista che fonde edonismo e nichilismo). Ma non manca la menzione degli Swans per le ritmiche dance accattivanti quanto martellanti, dei Gilla Band per le influenze post-hardcore di deviazioni industrial (i più arditi avanzano anche qualche riferimento germinale ai Nine Inch Nails) con un accenno al noise sasscore dei Daughters. Et al.
Sostanzialmente, al netto di tutto, sì i Model/Actriz sono tutte queste cose insieme, inutile negarlo. Ma inutile anche voler scandagliare costantemente nota per nota cosa assomigli a cos’altro. Dogsbody, come anche il titolo che porta (riferimento al passaggio nell’Ulisse di Joyce in cui un cane rintraccia sepolto tra la sabbia il corpo morto di un altro cane suo predecessore) è un voler scavare tra i meandri di un’ancestralità decadente per destrutturarla in ogni sua parte.
Per cui, il disco si presenta così: abbastanza succinto, dieci tracce per meno di 40 minuti complessivi in cui ognuna segue un proprio climax ascendente, implodendo su se stessa ma contemporaneamente, in maniera quasi ciclica, innestandosi alla traccia successiva per creare un flusso di discontinuità frammentaria e costante. Ne è un esempio il verso finale di “Crossing Guard” (“Oh it feels like/Oh it feels like…”) che si aggancia direttamente alle prime parole di “Slate” (“…Like pressure”).
La sezione ritmica curata da Ruben Radlauer alla batteria e sublimata dal basso di Aaron Shapiro crea un’orgia sonora di clangore da cui emergono le chitarre affilate di Jack Wetmore. Distorsioni elettroniche, beat ossessivi, ipnosi claustrofobiche e refrain suadenti che si arrampicano su un asse vorticante da cui emerge la modalità declamativa di Haden nell’articolare la sua voce, interpretando le lyrics con l’enfasi di una messa in scena (lo stesso cantante ha dichiarato a Pitchfork che il musical Cats resta la sua prima fonte di ispirazione).
L’inizio, affidato a “Donkey Show” con i suo suoni inquieti e sinistri, è una morsa che trascina in liquami tanto torbidi quanto affascinanti da cui impossibile districarsi (“heaven can’t erase the blackness from my heart”). Tra le frustate frenetiche di “Mosquito” (con il ritornello ficcante e provocatorio “With a body count higher than a mosquito”), le sferragliate di un treno in deragliamento di “Crossing Guard”, le isterie di “Pure Mode” e le modulazioni frastornanti di “Amaranth”, trovano spazio momenti slowcore in cui la voce sardonica ed irriverente di Cole si diluisce in sussurri velati, punteggiati da falsetti improvvisi, come in “Divers”, “Sleepless” e la meravigiosa chiusa “Sun In”, il contrappunto speculare dell’incipit (“and it’s so bright with the sun in my eyes”) che chiude alla perfezione un cerchio, lasciando intravedere spiragli di luce.
Alternando psichedelie scarne e scariche sonore deflagranti, alla fine si resta con una sensazione di stordimento senza capire se Dogsbody sia più un disco che ti fa venire voglia di ballare o sbattere la testa al muro.
Bello!
TRACKLIST
- Donkey Show
- Mosquito
- Crossing Guard
- Slate
- Divers
- Amaranth
- Pure Mode
- Maria
- Sleepless
- Sun In
VOTO: 8,5