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TAME IMPALA – DEADBEAT

Già dai singoli che erano usciti nei mesi scorsi ne avevamo avuto un assaggio: c’era una buona probabilità che il quinto disco in studio di Tame Impala avrebbe spaccato la critica. È stato così, forse anche di più. A cinque anni di distanza da The Slow Rush del 2020 (che pure non aveva entusiasmato particolarmente il pubblico), si era creata una certa aspettativa intorno al nuovo lavoro del musicista e produttore originario di Perth (Australia) Kevin Parker aka Tame Impala.

Effettivamente, Deadbeat è quanto di più distante si potesse immaginare rispetto allo psych-rock di InnerSpeaker (2010) e alle derive a tratti indie a tratti hyper-pop alle quali Parker ci aveva abituati con Lonerism (2012) e Currents (2015). Vero anche che l’evoluzione stilistica è sempre stata un tratto distintivo della sua discografia e, calcolando il personaggio, sempre alla ricerca di stimoli nuovi e ricerche di suoni, guidato dal perfezionismo e dall’insoddisfazione perenne, forse sì, ce lo potevamo aspettare.

ph. Julian Klincewicz

Detto questo, Deadbeat alza notevolmente l’asticella dei bpm e si adagia su ritmiche da clubbing all’insegna dell’acid-house, groove balearici e dilazioni totalmente techno. Melodie catchy, fluttuanti, che flirtano piu che mai con i beat e la cassa in quattro quarti. Sia chiaro, c’è una grossa fetta di pubblico che lo sta già osannando questo disco, in una sorta di estatica acclamazione dell’estro di Parker soprattutto a livello di produzione. Ma, ad essere particolarmente insidiose, sono le frange oltranziste di chi questa svolta non l’ha troppo digerita. Da un lato, ci sono gli aficionados di un certo tipo di sonorità più morbide e trasognate che ritengono questo lavoro come poco ispirato e lo declassano a mero divertissement senza una vera propria linea identitaria definita. Dall’altro, invece, quelli che, pur apprezzandone le velleità, restano dispiaciuti dal fatto che molte delle suggestioni presenti nella tracce non sfocino in qualcosa di ancor più spinto, recedendo timidamente dietro l’eccessiva patinatura.

Personalmente lo ritengo un disco che più di qualche volta lascia colpiti per le svolte che prende; Parker non ha la pretesa di voler essere il prossimo resident del Berghain, ma ama  lanciarsi verso un’esplorazione sonora EDM tradizionalmente fuori dai suoi ranghi nel modo e nella misura che più gli appartengono: senza strafare, con garbo ed eleganza. È il primo disco in cui compare la sua immagine su una copertina, tra l’altro in una foto che lo ritrae in un momento di profonda intimità con sua figlia ed è un lavoro che, così come ha dichiarato in una recente intervista a Zane Lowe,  ha sempre sognato di fare.

“Feels like it came out of nowhere this time”: si apre così Deadbeat con la traccia opener “My Old Ways” ed immediatamente chiarisce quella che puo’ essere considerata come una dichiarazione d’intenti. Fin da subito si delinea il mood del disco, in costante tensione tra euforia e malinconia, nella convivenza dicotomica tra bisogno di leggerezza e quel pur sempre perenne senso di inadeguatezza, che pervade come un fil rouge tutta la discografia di Tame Impala.

I bush doof australiani che tanto vengono ricalcati sottotraccia in questo disco si riversano in uno spazio ovattato dove i battiti interni esondano verso l’esterno più che il contrario. Ed in questo Deadbeat è un lavoro estremamente intimista nella misura in cui porta il clubbing nelle cuffie come forma di evasione. La sensazione finale è quella di aver realizzato una tech-house che cerca di togliersi la malinconia di dosso, ma si ritrova costantemente ad incapparne di nuovo beat dopo beat, sample dopo sample.

Le dodici tracce che lo compongono sono pervase da trame sonore che si diramano verso direzioni diverse, come campionario delle possibili declinazioni che la consolle può costituire per il suo deus ex machina. C’è il groove avvolgente che flirta con l’incedere balearico di “My Old Ways” (aperta da un fraseggio di piano lo-fi vagamente abbozzato che era originariamente una nota audio sul suo telefono), l’acid-house riflessivo di “Not My World”, l’elettro-funk di “Dracula”, il raggaeton elettrificato di “Oblivion”, la chill-wave pacata di “Piece of Heaven”, il tributo post-disco a Quincy Jones in “Afterthought”. Ma soprattutto ci sono i due macigni in cassa dritta, della lunghezza di più di sette minuti ciascuno, che sono la vera quintessenza di questo disco: “Ethereal Connection” (qui forse un posto come regular guest al Berghain il caro Kevin un po’ se lo vuole guadagnare) e la conclusiva “End Of Summer”, lisergica quanto basta per chiudere un disco che ti tiene in botta senza mai stordirti.

E magari sarà una parentesi, magari no, ma comunque bisogna oggettivamente riconoscere che abbiamo di fronte un disco in cui i punti di validità sussistono, eccome.

E i primi live ce lo stanno dimostrando.

 

 

TRACKLIST

1.My Old Ways
2.No Reply
3.Dracula
4.Loser
5.Oblivion
6.Not My World
7.Piece of Heaven
8.Obsolete
9.Ethereal Connection
10.See You on Monday (You’re Lost)
11.Afterthought
12.End of Summer

Immagine che rappresenta l'autore: Francesca Mastracci

Autore:

Francesca Mastracci