Live report a cura di Francesca Mastracci
È sempre difficile curare il live report di una band a cui si è particolarmente affezionati, ma ogni tanto è buona prassi concedersi il lusso di poterlo fare, lasciando che le parole sulla tastiera vengano dettate piuttosto dal flusso delle proprie emozioni che da altro e seguano narrazioni un po’ meno curanti di quella parvenza di oggettività, che tuttavia un cronista dovrebbe avere. Fatto questo preambolo, mi dedico senza riserve a scrivere qualche considerazione in merito al concerto di qualche sera fa dei Fine Before You Came al Monk di Roma, che ha chiuso ufficialmente la programmazione indoor del locale romano, tornato finalmente in questa stagione 2022/2023 a pieno ritmo dopo la parentesi pandemica.
Il concerto, l’ennesimo a cui ho assistito della band milanese, in questo frangente ha assunto dei connotati abbastanza particolari per me proprio perché era da prima della pandemia (probabilmente dal 2019) che non li sentivo live e mi ero persa tutto il tour di presentazione dell’ultimo disco Forme Complesse (del 2021) per una serie di sfortunati eventi, che mi avevano portata a saltare perfino la loro data di marzo sempre al Monk. Per cui, quando ho appreso la notizia di questo evento uscito un po’ a sorpresa qualche settimana fa, ho pensato che fosse stata, questa, una carezza che il destino aveva voluto regalarmi. E quindi eccomi qui a parlarne.
Andare ad un concerto al chiuso a Roma il 23 giugno sai già che significherà una cosa: bagno di sudore dal minuto zero in cui si apriranno le porte. E per non deludere le aspettative, così è stato. Benché avessero suonato in quello stesso posto solo tre mesi prima, il pubblico a sentirli non si limitava alle 50 persone che loro avevano, in modo scaramantico, preventivato. C’erano gli irrinunciabili, quelli che nonostante tutto non se la perdono l’ennesima occasione per battere i lividi una volta ancora e mantenerli sempre viola. E sempre sarà così. Negli anni, abbiamo imparato a conoscerci con alcuni di questi irrinunciabili che campeggiano nel sottopalco dei concerti dei FBYC e di tutta quella scena emocore, screamo, post-hardcore che ci ricorda perennemente che “it’s not a phase, dad” è stata la nostra dichiarazione d’intenti firmata col sangue quando abbiamo iniziato, adolescenti, a rinchiuderci nel nostro midwest emozionale.
Gli anni passano, ma certe sensazioni non te le togli di dosso (frase stucchevole un pelo mocciana, ma da leggere rigorosamente con sottofondo “Never Meant”) e così continuiamo ad aggrapparci a quei concerti che non sono mai in realtà solo concerti.
Ore 10,15 circa. Partono le prime sferragliate di fuzz a distendere un tappeto noise che introduce la band sul palco. Jacopo, scalzo, si lancia immediatamente nella sua solita danza sghemba e molleggiante mentre prende avvio “Buio/Appello” tra l’incedere marziale della batteria e le tessiture di un basso che pulsa insieme alle partiture ritmiche. Tra la soffusione dei giochi di luci ed ombre dai colori ora caldi ora freddi, i refrain martellano prepotenti con le loro ripetizioni ossessive. E quella dolcezza amara che ci viene urlata contro in tutta la sua disperazione ci rende compartecipi di un cerchio che si chiude proprio lì dove inizia il nostro sentirci vivi; noi, gli irrinunciabili di un rituale in cui il magone finisce davvero per essere un grande mago che alla fine ci strappa sempre un po’ il sorriso (un’altra semi-cit? un’altra semi-cit).
La scaletta della serata è stata impeccabile e, con molta franchezza, non avremmo potuto chiedere di meglio. Ok, è mancata “Vixi”, ma ci siamo fatti bastare “Sasso” (che non suonavano live da parecchio), “Come Alberi”, “Discutibile”, “Capire settembre” e “O è un cerchio che si chiude” tra le pietre miliari della loro discografia. È stato emozionante anche ascoltare per la prima volta (almeno per me) alcuni estratti dall’ultimo lavoro, sommessamente slowcore ma comunque potente in egual misura, tra cui “Gittana”, “Congoleto”, “Acquaghiaccia” e ovviamente “Forme complesse”.
Un’ora e un quarto dopo eravamo tutti in una distesa di sudore e lacrime, lacrime e sudore (personalmente “Nonsenso comune” suonata nell’encore ha dato la stoccata finale a quella squisita devastazione emotiva in cui ero piombata).
Credo che non guariremo mai da questa malattia o, come preferisco chiamarla io, da questa modalità di essere che trova nella tristezza la sua forma di espressione.
Ringrazio ogni giorno artisti che, così come i FBYC, ci consentono di avere suoni e parole con cui poter definire quella matassa che ci portiamo dentro (per non cadere in un becero citazionismo, qui la frase la lascio terminare a chi sta leggendo).
Grazie a chi da anni condivide queste emozioni sottopalco con me, anche prima di conoscerci.
E ovviamente grazie a voi che siete e sempre sarete Marco, Jacopo, Mauro, Filippo e Marco.