Recensione a cura di Davide Capuano
Sembra un’assurdità, ma fino allo scorso venerdì l’ultimo lavoro dei Queens of the Stone Age risaliva a ben sei anni fa. Era fine agosto 2017 quando Josh Homme e soci rilasciavano Villains, lavoro controverso e divisivo per molti fan. Dov’è l’assurdo in questa semplice statistica? Semplicemente nel fatto che per molti, me compreso, è servito andare a guardare il calendario per scoprire quanto tempo fossero sei anni, un tempo in cui più che frequentemente mi è capitato di ascoltare qualche brano dal sopracitato album o ancora da …Like Clockwork (pensate, per questo gli anni fanno dieci) e non vedere apparire neanche una ruga, un segno di stanchezza: ogni volta sembrava di ascoltare del materiale appena sfornato.
Conveniamo tutti però che una volta assimilato ciò e realizzato che il 16 Giugno sarebbe stato il giorno di In Times New Roman…, le palpitazioni a quel punto diventano più che lecite, e non perché i QOTSA sappiano accontentare tutti a scatola chiusa – anzi – ma perché, in un certo senso, di Josh Homme ci si può fidare, a maggior ragione dopo aver dichiarato apertamente di aver passato momenti molto difficili: la morte degli amici Mark Lanegan (Screaming Trees) e Taylor Hawkins (Foo Fighters) e la diagnosi di un cancro, asportato con successo durante un’operazione chirurgica un anno fa, eventi che ha dichiarato essere stati compromettenti per la sua attività da musicista, rischiando di rivivere quel baratro che aveva già vissuto per problemi di salute prima della pubblicazione di …Like Clockwork.
Insomma, Homme è un duro non solo quando imbraccia la sua sua Maton, con cui ha plasmato riff incredibili sin dai tempi dei Kyuss, dettando le sacre scritture dello stoner rock; è anche un leader che trascina con sé un’aura di mistero e tenebre che la fa da padrona nell’ultimo lavoro dei Queens of the Stone Age. Rivelato come parte finale di una trilogia che parte da …Like Clockwork, oggi col senno di poi si può comprendere meglio quella che illo tempore fu una virata stilistica decisa, ponendo una firma d’autore su quegli scanzonati riff blues, donando una tonalità accesa ai colori caldi ed aridi che li caratterizzavano. Se l’incipit di questa trilogia siglata con Matador Records resta forse il suo apice autoriale e Villains una pietra angolare in cui lo stoner si fa ballabile e sensuale, In Times New Roman… segna la chiusura del cerchio ponendo la band in pieno controllo delle tenebre dipinte dalle loro sonorità, e in un certo senso la sintesi di tutto ciò che questo decennio artistico ha portato nella vena creativa del chitarrista californiano.
Homme raccoglie il suo lato più ruvido e garage e lo mette al servizio sin dalle prime battute di Obscenery, e dopo pochi secondi i fan possono già respirare aria di casa, ancora più “autentica” in Paper Machete o in What the Peephole Say, che vanno a ripescare direttamente dalle sonorità di Era Vulgaris. Ma troviamo anche un lato, fortissimo, di un Josh Homme istrionico e teatrale, che si erge forse più di ogni altro aspetto in tutto l’album: in Negative Space è ancora l’arido terreno fertile del desert rock a fare da set per la sua verve, in passaggi come Time & Place è accompagnato da un groove affascinante ed ipnotico, su cui le chitarre di Troy Van Leeuwen hanno piena libertà di essere affilati e taglienti, risultando spesso come quell’elemento sonoro che dà una sfumatura elegante al tutto, come nella cavalcata finale di Made to Parade o nel singolo anteprima Emotion Sickness, in cui fanno capolino le backing vocals dell’amico Matt Helders (Arctic Monkeys). Ma le atmosfere prevalenti dell’album hanno un colore scuro, sono composte da più ombre che luci; il carisma di Homme si fa quasi-glam, prendendo per mano il genere di cui rivendica una paternità forte ed autoritaria e lo proietta nelle dimensioni cupe – quasi inquietanti – ma cariche d’energia, che culminano in Sicily e Carnavoyeur. I Queens of the Stone Age hanno sempre regalato chiusure dal forte impatto, e Straight Jacket Fitting non è da meno, ma la sensazione di disorientamento è forte quando se ci si aspetta con esito quasi scontato una ballad emozionante nello stile di …Like Clockwork o Villains of Circumstances dei precedenti due lavori, e poi ci si ritrova di fronte ad una nove minuti di riff carichi di blues malvagio, intervallati da bridge atmosferici e impreziositi da una coda in acustico semplicemente eterea: un’espressione di ciò che i Queens sono diventati in questi ultimi dieci anni. Quindi, ci sono pezzi da Greatest Hits in quest’ultimo lavoro? Chi può dirlo. Ma soprattutto, dai venticinque anni dalla pubblicazione dell’omonimo album d’esordio, è davvero possibile definire in una manciata di brani l’evoluzione stilistica che i Queens of the Stone Age hanno tracciato, dettando uno stile ormai inconfondibile? Decisamente no. In Times New Roman… è da ascoltare e riascoltare per assorbirlo pienamente, un regalo che forse solo lo zoccolo duro dei più affezionati a Songs for the Deaf non gradiranno troppo, in definitiva l’ennesima prova che la vena creativa di Josh Homme è qualcosa di pregiato, pericoloso ed incredibilmente attraente.
Tracklist:
- Obscenery
- Paper Machete
- Negative Space
- Time & Place
- Made to Parade
- Carnavoyeur
- What the Peephole Say
- Sicily
- Emotion Sickness
- Straight Jacket Fitting
VOTO: 7,5