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Mudhoney + Søwt, Largo Venue (Roma), 11.09.2024

C’è una band che in numerosi libri sul grunge viene ingiustamente descritta in poche righe, in alcuni casi viene addirittura omessa; stiamo ovviamente parlando dei Mudhoney. Pochi autori, come Azerrad che ad esempio ha dedicato loro un bellissimo capitolo suquella che è probabilmente la Bibbia dell’indie (“American Indie” il titolo nella versione italiana), ne hanno colto l’importanza storica, oltre che stilistica, dell’accoppiata Arm/Turner che gettò le fondamenta già ai tempi dei Green River.

Ma i Mudhoney sono quella band che si è sempre mossa dietro i riflettori con fiera coerenza, mentre il mondo veniva pian piano conquistato dai “vocioni” di Staley, Cornell, Vedder e compagnia bella.*

*Nota bene, non ho inserito Kurt Cobain proprio perché un caso a parte, insieme appunto a Mark Arm.

Per giunta dopo il secondo disco omonimo, gli Honeys si sono sempre più staccati da quel sound primordiale e abrasivo che a fine anni 80 diventò rivoluzionario per Seattle e per la musica alternativa tutta, allargando sempre più gli orizzonti verso un sound più garage devoto ad altri concittadini: i Sonics.

Questa svolta però non avvenne per gli stessi motivi di Nevermind per i Nirvana, ma per puro spirito DIY, definendo quel sound genuino “a metà” che li ha resi unici.

Intanto, a discapito degli autori ignari di cui sopra, il concerto dei Mudhoney a Largo Venue è andato sold-out, come anche in altre date europee.

La verità è che non se l’aspettava nessuno, non solo i detrattori ma anche coloro che pensavano di trovare un biglietto all’ingresso. Sono numerose le persone infatti che ho visto tornare a casa incredule.

Tolto il dispiacere per questi ultimi, il sold-out dei Mudhoney ha rappresentato, almeno per il sottoscritto, un barlume di ottimismo in una tradizione di concerti purtroppo sempre più lontana da certe sonorità. Forse bisognerebbe crederci un po’ di più?

Non ho una risposta a questa domanda ma mentre la lasciamo lì come punto di riflessione è ora che inizio a raccontarvi la serata.

Ammetto di essere arrivato durante gli ultimi pezzi dei Søwt, il gruppo olandese di apertura.

Ammetto di non averli mai sentiti prima di questo evento.

Ammetto che sono stati devastanti (in senso buono) e ammetto di essere partito nel vortice dei tanti che prima di entrare in un live club sottovalutano l’importanza dei gruppi spalla a prescindere; poi però c’è stato il fischio d’inizio che ha cambiato tutto.

I Søwt sono stati pura potenza con stile a pacchi: sonorità soniche (scusate il gioco di parole), hardcore, il grunge più grunge che potete immaginare e tanto altro. Un finale che mi ha definitivamente catturato, complice il grido di Danielle, voce e basso della band, che ha riempito tutti gli spazi possibili di Largo Venue. Provate ad ascoltare anche la versione studio di “Why” e poi mi direte se non avevo ragione.

È il turno del quartetto di Seattle, che parte subito con “If I think”e a seguire “Move Under” dal recente Plastic Eternity.

La scaletta è legittimamente e coerentemente prevedibile come dovrebbe essere in un concerto rock’n’roll. Tra grandi classici del passato (“Into the Drink”, “Let it Slide”, “You got it”, “Sweet Young Thing”…), pezzi della “seconda ondata” (“Paranoid Core”, “I’m Now”, “Oh Yeah”) e selezioni dal già citato Plastic Eternity (“Little Dogs”, “Souvenir of My Trip” e la più mudhoneyana in senso stretto “Human Stock Capital”).

Immancabile “Touch me I’m sick”, che per la serata è stata variata in “Put Down your phone”, tutto questo proprio mentre riprendevo con il mio smartphone la canzone da sotto il palco (come molti altri nel pubblico btw), grazie Mark.

È proprio lì che ho deciso che forse non sarebbe stato il caso raggiungerlo dopo per avere finalmente una foto insieme, magari mi aveva memorizzato e ho preferito non rischiare. Ho preferito tenere un buon ricordo di quello che ancora oggi rientra tra i miei 3 miti musicali di sempre.

Come dicevo, concerto scorrevole, fatto di pochi interventi parlati, qualche apprezzamento sul vino italiano (grande classico) e subito si riparte.

Per ragioni anagrafiche ovviamente non più nel loro momento Prime ma comunque sempre in splendida forma, Mark Arm che tira fuori ancora oggi tutta la sua potenza con una facilità estrema. Sarà stato il potere del Vermentino. Dan Peters ancora un grandissimo batterista, Steve Turner sempre fedelissimo al “suo” suono e Guy Maddison che da anni ormai non ci fa rimpiangere un altro grande bassista come Matt Lukin.

Bis che non si è fatto attendere troppo e si torna a bomba con classiconi della prima era come “In ‘N’ out of Grace” e “Here comes Sickness”. Avrei voluto qualcosina in più da Every Good Boy ma su questo non mi lamento perché ho avuto modo di ascoltarli in altre occasioni, sempre nella capitale.

Che altro aggiungere, i Mudhoney sono una band che non ha mai preteso quello che avrebbe realmente meritato in quell’olimpo denominato “grunge” ma che è sempre rimasta con i piedi per terra.

Questo concerto è stato semplicemente l’ennesima dimostrazione di tutto ciò e noi li amiamo per questo.

Autore:

Charlie Fuzz