Quando nel 2008 pubblicarono il loro primo disco, Travels, avevano già in mente l’idea ambiziosa che ne avrebbe fatto di esso il primo capitolo di un lavoro strutturato attorno ad un concept ben definito che avrebbe dato forma alla loro successiva discografia. Sono passati ben 11 anni da allora e i Defeatertornano con il quinto capitolo di questa saga familiare ambientata nel New Jersey durante il secondo dopoguerra. Una specie di Rougon-Macquartadattato in epoca contemporanea, in un passato non troppo remoto, che narra le difficili sorti di una famiglia della classe operaia alla dine degli anni ’40 con un linguaggio musicale che potrebbe essere definito hard rock melodico, ma che strizza volentieri l’occhio in più circostanze sia al punk e sia ad amabilissimi scenari post-rock.
Il titolo omonimo del disco, però, è anche un tributo alla loro storia, alle guerre interiori che hanno scandito la loro carriera fin dagli esordi (tra alcolismo, dipendenza, depressione) e che li hanno portati nel 2015 a fare i conti con se stessi. Da lì, all’indomani della pubblicazione del loro ultimo disco (Abandoned) hanno preso la consapevolezza che se volevano davvero continuare a farsi cantori del messaggio che li aveva spinti ad iniziare, allora dovevano ristabilire una serie di punti cardinali. Uno di questi è stato l’espulsione del chitarrista storico, cofondatore della band, Jason Maas, tassello importante per la scrittura delle parti musicali dei pezzi.
Hanno combattuto le loro battaglie, ma alla fine ne sono usciti, da veri vincitori (‘defeater’ significa proprio vincitore, ndr), riemergendo a testa alta con un album che vede l’esimia produzione di Wil Yip (Quicksand, La Dispute, Angel Du$t) come nota aggiunta di pregio per la composizione del disco.
Le undici tracce che costituiscono la tracklist sono come non mai un condensato di atmosfere oscure ed evocative che si inerpicano attorno alla narrazione verbosa con un cantato presente in maniera nettamente pervasiva e che resta sempre sul filo dello screamo, senza mai travalicandolo troppo, né per salire di tono né tantomeno per scenderlo. L’intensità delle tracce però non è data soltanto dalla voce di Derek Archambault, ma anche dall’accompagnamento musicale e soprattutto dalle sezioni ritmiche, molto presenti a scandire il climaxtrasudante di pathossu cui si articolano i pezzi. Interessanti anche li linee di basso distorto ad avvolgere chitarre riverberate ed ipnotiche, intessendo una trama di circolarità in continua progressione lungo tutti i pezzi, tra cui si incastrano anche momenti di maggiore distensione ed essenzialismo sonoro; ma si tratta per lo più sempre di tappeti che si srotolano per preparare scalate noise fatte di dissonanze e ritmi concitati.
Infine, un disco molto curato negli arrangiamenti, forse screziato troppo dalla presenza massiccia di cantato che non si modula troppo ma resta sempre molto uguale a se stesso lungo tutti i pezzi lasciando poco spazio per l’apprezzamento sonoro. Ma nel complesso, Defeater rappresenta probabilmente la punta più alta realizzata finora dalla band, sicuramente nei suoni il disco più maturo. Speriamo solo che nel prossimo capitolo esplorino di più questo versante.
Tracklist:
- The Worst Of Fates
- List & Heel
- Atheists In Foxholes
- Mothers’ Sons
- Desperate
- All Roads
- Stale Smoke
- Dealer / Debtor
- No Guilt
- Hourglass
- No Man Born Evil
A cura di: Francesca Mastracci