Live report a cura di Francesca Mastracci
Con gallery fotografica a cura di Daniele Maldarizzi
Arriva sempre un momento quando ci troviamo a parlare di artisti che seguiamo dagli albori e che abbiamo visto crescere nel corso degli anni (crescendo anche noi insieme a loro) in cui ci lasciamo prendere dalla botta amarcord.
La prima volta che ho visto live i Bud Spencer Blues Explosion è stato ad un festival estivo di provincia da qualche parte nel centro-sud Italia; sono passati quasi 15 anni e sarò onesta: decisi di andare abbastanza a scatola chiusa, non avendo ascoltato affatto l’album d’esordio che stavano portando in tour, fatta eccezione per quella cover superlativa di “Hey Boy Hey Girl” dei Chemical Brothers. Ma ne avevo sentito parlare bene perché si diceva che sul palco suonassero come in dieci benché fossero soltanto in due (semi-cit dal pezzo “E tu?”) e poi sì, perché mi piaceva il loro nome. Motivazioni più che sufficienti mi parsero all’epoca per esorcizzare la malinconia di fine estate ed inoltrarmi nell’entroterra laziale. Sono ancora grata al mio sesto senso per avermi fatto scoprire una realtà musicale che mi fece letteralmente esplodere il cervello. Certo, li avrei sicuramente recuperati prima o poi nel loro percorso, ma il fatto di averli scoperti così presto mi ha dato un prezioso storico per valutarne l’evoluzione performativa messa in atto nel corso di questi anni, vedendoli successivamente esibirsi su palchi più grandi o anche con i loro rispettivi progetti paralleli (nello specifico, Adriano Viterbini con gli I Hate My Village e con il suo progetto solista e Cesare Petulicchio come batterista di Motta). Giovedì sera il duo romano giocava in casa e, come da tradizione quando suonano da queste parti, hanno incassato il sold-out riempiendo completamente la sala del Monk, locale capitolino che più volte li ha ospitati. Essendomi persa la serata allo Spring Attitude della quale sono stati tra i protagonisti qualche mese fa, per me è stato un vero piacere ritrovarli in un locale a cui sono così tanto affezionata.
La serata è stata aperta da un duo molto interessante, i Bento, che hanno richiamato sottopalco tutti i presenti che erano arrivati in anticipo, destreggiandosi tra sperimentazioni elettroniche avanguardiste con snodi acid-jazz e dirompenti flussi magmatici afro-beat.
Tempo di un rapido cambio palco e alle 22,20 entrano in scena Adriano e Cesare, che salutano il pubblico con il loro consueto riserbo, che ai più potrebbe sembrare distacco ma che in realtà ha più i connotati di un entusiasmo dismesso che si districa non appena si posizionano dietro i loro strumenti ed iniziano a costruire un solido edificio con le loro sapienti stratificazioni sonore, creando un’atmosfera coinvolgente.
Un aspetto che ho sempre amato di questi due musicisti è la loro estrema attenzione nel non trasformare mai il virtuosismo (che pure li caratterizza) in mero sfoggio, concentrandosi invece sull’esecuzione e sul modo di articolare un linguaggio qualificabile nelle convergenze tra ritmiche portentose e fraseggi lisergici.
Parte della scaletta è dedicata alla presentazione del loro ultimo disco in studio Next Big Niente, uscito ad ottobre per La Tempesta Dischi.
Con questo nuovo lavoro, il duo va a smussare ulteriormente i connotati dei vari generi musicali di riferimento, scardinando i punti di confine tra psych-rock, blues, funk ed elettronica, componente sempre più presente nel loro sound. L’assetto effettistico è triplicato rispetto a qualche anno fa e c’è anche un lavoro maggiore sulle percussioni da parte di Cesare. I groove si snodano in cadenze etniche con campanelli attaccati ai piatti e strumenti idiofoni che vibrano nell’aria per spezzarsi poi sotto il beat penetrante della drum machine, in un andirivieni al quale fa da cornice la chitarra di Adriano, vera cassa di risonanza del suo canto.
Un’ora e quarantacinque minuti, senza stacchi, senza distrazioni o momenti di pausa se non per un brevissimo istante prima dell’encore. Parole profferite sul palco? Forse tre, ma non vorrei esagerare. Hanno lasciato che i loro strumenti parlassero per loro, più o meno come succede da quindici anni a questa parte. Il linguaggio è cambiato, si è arricchito, ma credo che ad ascoltarlo bene, il messaggio sia sempre lo stesso: quello che dà suono a un silenzio assordante che brucia in gola (altra semi-cit).