Era il 2020, in piena crisi pandemica, quando i Bright Eyes decisero che era arrivato il momento di rompere il silenzio dopo nove anni e tornare sulle scene con un disco che, seppur non spiacevole, risulta ad oggi come uno dei capitoli meno riusciti della loro discografia. Eccessivamente barocco, pieno di dettagli che si rincorrono caoticamente senza troppa coesione, a tratti ridondante e forse un pelino poco ispirato. Sarà che la lunga attesa aveva alimentato alte aspettative, sarà che il disco non ha mai conosciuto una sua dimensione live, sarà che Conor Oberst nell’ultimo periodo si stava concentrando maggiormente sul suo progetto parallelo con Phoebe Bridgers (Better Oblivion Community Center), ma di fatto il risultato non entusiasmò neppure la band stessa, che si rimise subito a lavoro per riarrangiare una serie di album Companion del loro intero catalogo con vari featurings e reinterpretazoni.
Questo sguardo indietro avrà forse resettato il loro focus e, a “soli” quattro anni di distanza, con piacere ritroviamo i fasti della band in grande spolvero. La creatura di Conor Oberst, con Mike Mogis e Nate Walcott, forgia l’undicesimo album in studio autoprodotto presso gli ARC Studios ad Omaha (co-fondata da Oberst e Mogis, ndr). Five Dice, All Threes è, come il titolo che porta, un lancio di dadi che scommette sull’alt-folk smaccatamente americano, interpretato con il piglio inconfondibile di una band che da ormai quasi trent’anni ha costruito la propria identità attraverso una narrazione sonora e lirica in grado di tratteggiare scenari in cui delicatezza e acume si intrecciano a filo stretto. Come sempre, veniamo invasi anche stavolta da testi che lasciano senza fiato per la loro devastante penetrazione dell’animo, con un’incisività a tratti brutale quanto carezzevole, adagiati su suoni pregni di melodia e vivacità, che risultano perfettamente in contrasto con le strazianti linee vocali di Oberst sul punto di spezzarsi ad ogni istante.
Il disco si apre con una traccia-non-traccia (anche questa abbastanza una costante della loro produzione) in cui viene registrato l’incipit di un gioco a dadi. Ma la partita prende ufficialmente il via con la trascinante e armoniosa “Bells and Whistles”, nonché primo singolo estratto, che con i suoi clangori festosi immediatamente lancia le basi per le restanti tracce, introducendo rumorismi, samples di film e scratches che ricorreranno circolari a punteggiare l’intero disco.
La scaletta procede in maniera discontinua, ma pure coerente, allaciando acustiche country ballad che sembrano cavalcate (come “El Capitan”, che vagamente mi ha fatto pensare a “The Boxer” di Simon & Garfunkel, o “Trains Still Run On Time”) e adagi musicalmente dolci ed avvolgenti (“Tiny Suicides” o “Real Feel 105”) che con il loro tono dolceamaro svettano tutto il disagio esistenziale, esplorando nostalgie che non possono essere ignorate (come citano in “Bas Jan Ader”, pezzo ricalca la storia dell’omonimo fotografo scomparso nel 1975 nel tentativo di voler attraversare l’Oceano Atlantico). Molto interessante il modo in cui l’impatto strumentale della totalità del disco è costruito su una pienezza dei crescendo, che trascina le aperture dismesse o in progressive esplosioni di trombe, fisarmoniche, banjo o orchestrazioni discrete di archi e fraseggi di pianoforte, o anche in chitarre distorte che venano il sottotesto sonoro in maniera sempre più penetrante (come in “Hate” ad esempio).
Di una bellezza disarmante sono poi i feat del disco, molto differenti tra loro, ma pienamente azzeccati tutti e tre. “All Threes”, cantata assieme a Cat Power, colpisce per la profondità e il fascino con cui le voci si intersecano su un tappeto di ammalianti tocchi di piano e percussioni strascicate. Un brano elegante e raffinato dai contorni fumosi. Il secondo feat “Rainbow Overpass”, posto in maniera dirompente subito dopo il primo, è al contrario un conglomerato di folk punk soverchiante di vaga ascendenza Violent Femmes in cui fa la sua comparsa Alex Orange Drink dei So So Glos (che ha partecipato, tra l’altro, anche alla stesura e registrazione di altri pezzi del diso). In ultimo, il penetrante duetto con Matt Berninger dei The National in “The Time I Have Left”, malinconica e straziante piano ballad sublimata da squarci di scratch che irrompono l’incedere monotono e solenne del pianoforte. Spicca il contrasto incredibile tra la voce acidulata di Oberst e il tono baritonale di Berninger, mentre si intrecciano in un botta e risposta fino poi a confondersi in un finale shalalala ripetuto a squarciagola.
Un disco molto bello, che decreta il piglio inconfondibile dei Brigt Eyes come creatori di universi stillanti di immagini poetiche e rarefatte che pure risultano estremamente radicate in quelle sezioni di vita che non troverebbero altrimenti interpretazione se non VENISSERO racchiuse in canzoni.
Tracklist
- 1. Five Dice
- 2. Bells and Whistles
- 3. El Capitan
- 4. Bas Jan Ader
- 5. Tiny Suicides
- 6. All Threes
- 7. Rainbow Overpass
- 8. Hate
- 9. Real Feel 105°
- 10. Spun Out
- 11. Trains Still Run On Time
- 12. The Time I Have Left
- 13. Tin Soldier Boy