Se dovessi usare un’immagine per descrivere l’ultimo disco dei Turnstile, sarebbe certamente uno di quei quadri cubisti in cui la scomposizione cumulativa di blocchi che si dilatano nello spazio, fondendosi con lo sfondo, crea una geometria d’incastri tra asperità angolari e contrappunti cromatici fluidi. Così, sinesteticamente, mi si è presentato all’ascolto l’ultimo disco della band di Baltimora, uscito lo scorso 6 giugno sotto il sodalizio ormai comprovato con Roadrunner Records.
Never Enough arriva a 4 anni di distanza da Glow On (del 2021), che li aveva consacrati a livello internazionale tra i gruppi più interessanti nella scena crossover tout court, scardinandoli in maniera piuttosto decisiva dalla sfera prettamente hardcore dei primi due dischi (Nonstop Feeling del 2015 e Time & Space del 2018), pur comunque lasciando intatta una forte matrice compositiva ed identitaria -core, ma declinandola sotto varie vesti che abbracciavano il pop, il metal, il post-punk e l’elettronica. Vero, i più oltranzisti avevano storto il naso, ma una grande fetta dei loro fan si era certamente dimostrata più flessibile a cogliere gli spunti di un disco molto valido che si poneva al lato specularmente opposto del concetto di monolitismo. E che live, inutile dirlo, suonava di una potenza ineccepibile allo stesso livello dei predecessori.
Questo esercizio di stile si è riversato, iperbolicamente, piè pari nella stesura di Never Enough che, a livello di tempistiche, ha coinciso proprio con la fine del tour di Glow On. Come ha dichiarato la band, inoltre, alcune delle tracce presenti in quest’ultimo sono state rielaborate proprio dopo essere state scartate da quel disco e non è un caso dunque se già a primo acchito se ne risentano chiare le influenze (basti bensare alla title track per farsi un’idea). Ma non c’è citazionismo qui. Il disco respira di vita propria, portando a compimento tutte le possibilità che nel precedente erano state solo abbozzate e rappresentando in ciò, probabilmente, la prova più matura e consapevole a livello strutturale/stilistico che la band abbia realizzato finora.
Ogni strumento mantiene una propria compattezza all’interno del discorso generale che la band intavola e nel complesso il risultato non è tanto una sintesi quanto piuttosto una giustapposizione orchestrale delle varie linee intraprese da ciascun musicista: Brendan Yates alla voce e alle tastiere, Daniel Fang alla batteria, Franz Lyons al basso, Pat McCrory alla prima chitarra. Piccola specifica sulla registrazione: questo è il primo album che esce ufficialmente dopo che Brady Elbert –chitarrista storico e cofondatore– ha lasciato il gruppo ed è stato sostituito nel 2023 da Meg Mills, che però non ha partecipato alle session.

Detour improvvisi, viaggi intergalattici, atmosfere cinematiche, tappeti sintetici di trasognata bellezza, ma anche spaccati metal, poliritmie esplosive, riff di chitarra granitici: più che mai con questo disco l’ascolto si fa esperienza. Niente è lasciato al caso, in un gioco di incastri cubici e curiose variazioni sul tema che non rendono mai l’insieme dei generi e delle influenze presenti come un amalgama senza senso.
Molto spesso è all’interno degli stessi brani che avvengono questi piccoli miracoli di composizione. Quando ho ascoltato “SUNSHOWER” ricordo chiaramente di aver pensato, a metà pezzo, che mi fosse impazzito lo shuffle della piattaforma di streaming. E invece no: la traccia si spacca letteralmente in due parti di cui la prima in pieno stile hardcore à la Turnstile e la seconda pervasa dai fiati onirici del polistrumentista britannico Shabaka Hutchings, sicuramente tra le eccellenze massime del jazz contemporaneo, che dirigono verso un piglio meditavo il brano.
Stesso effetto più o meno che ho avuto con “LOOK OUT FOR ME” : snodi metal con un outro quasi esageratamente lungo di deep house, che poi si riversano nella parentesi balearica (ma veramente? sono ancora i Turnstile qui?) di “CEELING”. Il resto della scaletta sciorina gli zampilli power pop di “I CARE”; le rifrazioni synth-pop in pieno stile ottantiano di “SEEIN’ STARS” (dove compaiono, tra gli altri, i feat con Haley Williams dei Paramore ai cori e di Dev Hynes aka Blood Orange alla produzione); gli slanci funkeggianti vagamente latino-americani di “DREAMING” (con la presenza di alcuni membri dei Bad Bad Not Good, che avevano già collaborato con la band nel 2023 per il riarrangiamento di alcune tracce di Glow On).
Ma è in pezzi come “DULL” (pure con i suoi strascichi finali distorti pieni di interferenze glitch dal sapore thomyorkiano) o “BIRDS”, la prima metà di “SUNSHOWER” e “SOLE” che riemerge come una peperonata della sera prima tutto lo spirito coriaceo della band che, in fondo, comunque, non li ha mai abbandonati.
Molto interessante, infine, la congiunzione nelle tastiere/organi tra la conclusiva “MAGIC MAN” e l’aggancio con la title-track in apertura, quasi a sancire la chiusura di un cerchio e a decretare, tematicamente, che niente è mai abbastanza e che si torna sempre verso un ideale punto di partenza dentro se stessi per ripartire. A livello concettuale, infatti, Yates esplora nelle lyrics tematiche più che mai rivolte all’introspezione, che cercano di affrontare l’abbandono, la perdita, l’insoddisfazione, il malessere esistenziale, ma anche il bisogno di trovare il focus negli abbagli di luce che, metaforicamente, permeano l’aria dopo la pioggia e appunto tirano fuori i colori dell’arcobaleno.
In realtà si potrebbe dire che non ci sono tracce in questo disco, ma è tutto un unico grande flusso intervallato da momenti di stacco da cui emerge una spiccata cura verso i dettagli. La scelta di ricorrere a sezioni ritmiche elaborate giocate su modulazioni sonore anche agli antipodi è sicuramente il risultato di un’indiscussa bravura tecnica che in sede live può trovare la sua più completa realizzazione. Come non a caso ne è chiara testimonianza il live di presentazione del disco a 10 maggio al Wyman Park Dell di Baltimora (i cui proventi sono stati devoluti ad un’associazione benefica per persone senzatetto). E come racconta chi ha avuto modo di vederli nelle date del tour che è da poco iniziato.
E se è vero, parafrasando le parole di Brendan Yates, che il genere non è altro che un’etichetta e che ciò che conta davvero è la comunità di persone che ci sono dietro, potremmo leggere questa commistione di stili avviata già con Glow On come un tentativo di spingere l’hardcore oltre, verso territori di condivisione che non si limitano a determinate sonorità. Un Avant-Hardcore, mi verrebbe da dire, che preconizza non solo un nuovo modo di intendere il genere ma anche una nuova possibilità di fruizione della musica in senso più generale. Senza barriere. In completa libertà.

TRACKLIST:
- 01. NEVER ENOUGH
- 02. SOLE
- 03. I CARE
- 04. DREAMING
- 05. LIGHT DESIGN
- 06. DULL
- 07. SUNSHOWER
- 08. LOOK OUT FOR ME
- 09. CEILING
- 10. SEEIN’ STARS
- 11. BIRDS
- 12. SLOWDIVE
- 13. TIME IS HAPPENING
- 14. MAGIC MAN