Recensione a cura di Francesca Mastracci
Devo essere onesta, sono stata fortemente in dubbio se recensire o meno questo ultimo disco dei National.
La ragione è semplice. Da irriducibile fan quale sono della band di Cincinnati, ho sempre fatto fatica a parlare dei loro dischi impiegando un parametro di giudizio quantomeno comprovato a livello oggettivo. Si è trattato sempre di lavori che, a mio gusto, raggiungevano picchi stilistici molto alti e quindi ho dovuto applicare un certo freno nell’entusiasmo mentre ne scrivevo. Poi, inaspettatamente, a fine settembre è arrivato Laugh Track e per la prima volta sono rimasta basita riguardo quella che era la mia ricezione di fronte a questo disco che, seppur difficilmente catalogabile come poco valido, comunque già ad un primo ascolto mi aveva lasciata con una strana insoddisfazione.
L’album, il decimo per la band, è arrivato a sorpresa a distanza di solo cinque mesi da First Two Pages of Frankenstein (leggi la nostra recensione qui), disco che aveva segnato il loro sofferto ritorno sulle scene dopo un lungo periodo in cui la mancanza di inspirazione si stava rivelando abbastanza fatale.
Gran parte del materiale di Laugh Track nasce proprio dalle stesse sessions compositive del suo prodromo e, a livello concettuale, ne ricalca il mood, trasmutando, però, in un certo qual modo quella profonda e radicata malinconia verso atmosfere che si stagliano su scenari più luminosi. L’uso della stessa foto in copertina a colori e con lo sfondo visibile è probabilmente esplicativo del modo in cui i due dischi siano relazionati l’uno con l’altro (la foto originale è uno scatto a dell’illustratore John Solimine – amico di lunga data di Matt Berninger, ndr).
Come era già accaduto con FTPOF, anche in questo caso gran parte di pezzi ha subito una sorta di “live test” prima di essere ri-arrangiata e registrata.
Nel lotto, però, trova posto anche “Weird Goodbyes” traccia del 2022 con il feat di Bon Iver che era stata esclusa dal disco precedente perché, si disse, la si voleva mantenere come parentesi di stacco tra quello che era stato e quello che sarebbe destinato ad essere per le sorti discografiche della band. Tutto molto coerente, certo!
E anche questo ha comprovato la mia impressione, a primo acchito, che Laugh Track non fosse altro che una marchettata commerciale in linea con il moderno dictat di fruizione digitale che vuole il catasto produttivo a tutti i costi: più roba hai dentro il catalogo di riproduzione e meglio è. I SAULT solo lo scorso anno hanno tirato fuori 5 dischi per un totale di 56(!) tracce e ormai abbiamo perso il conto di quanti dischi di King Gizzard & the Wizard Lizard siano uscuti in poco più di un decennio.
D’accordo, non è e non sarà la prima volta che una band fa uscire più dischi interconnessi nel giro di poco tempo, sia che seguano una narrazione comune che, al contrario, riprendano il discorso per tramutarlo nel suo contrario. E qui non si può non citare il caso che rappresentato Kid A e Amnesiac per i Radiohead.
Se non ci fosse stato l’uno ci sarebbe stato l’altro. E viceversa.
Ma si può dire lo stesso del distico che compongono questi due lavori dei National?
Dubito. E posso affermarlo, non certo senza una punta di amarezza, dopo averlo riascoltato innumerevoli volte. A caldo avrei detto fosse poco necessario, ma saggiamente mi è stato fatto notare che cosa in fondo lo è? Quindi dirò semplicemente che mi ha dato come l’impressione di aggiungere dettagli superflui ad una narrazione che si era già autocompletata in maniera impeccabile con il disco precedente. Come l’ultima stagione di una serie che si è protratta troppo a lungo.
Dopo questa ammissione d’intenti, però, è giusto anche esaminare il disco per quello che è.
Da gemello eterozigote del suo predecessore qual è, Laugh Track non smentisce l’estrema eleganza stilistica della band e una profonda delicatezza sia nelle lyrics che nelle trame strutturali. Ritroviamo le orchestrazioni evocative chamber-rock dell’ultimo periodo National, assieme alle atmosfere intime intavolate su arrangiamenti essenziali. Ma ritroviamo anche le partizioni ritmiche in progressione e quei riff angolari tanto familiari ai primi lavori, che sembrano voler squarciare il cuore degli ascoltatori ogni volta.
In particolare, in questo disco torna ad essere maggiormente presente una fisicità robusta della sezione ritmica (“Deep End (Paul’s in Pieces)”a questo proposito dà l’idea di essere quasi un continuum di “Don’t Swallow the Cap”) con la batteria di Bryan Devendorf nuovamente in auge, dopo essere stata un po’ dismessa negli ultimi tempi per favorire l’uso della drum-machine, comunque persuasiva anche in questo lavoro. Laugh Track conferma, inoltre, la straordinaria capacità dei National di manipolare stratificazioni sonore in grado di conferire una ricercatezza compositiva che si sposa perfettamente l’estetica del gruppo, sublimata dall’interpretazione baritonale di Matt Berninger.
Ritroviamo anche qui una serie di feat, tutti estremamente ben riusciti. Oltre la già citata perla con Justin Vernon in “Weird Goodbyes”, incontriamo nuovamente Phoebe Briders (che aveva già legato la sua voce a quella di Matt in due pezzi di FTPOF) nella title track, una ballad sinuosa in grado di restituire, con una potenza evocativa estremamente delicata, l’atmosfera nostalgica a cui allude il testo. È un sorriso nei momenti di disperazione, un gesto di liberazione catartica che parte da dentro proprio mentre si sente di aver perso tutto, il suono della rivincita contro la tempesta. Una risata a margine di tutto quello che non c’è più. Della stessa caratura è anche “Crumble” con Rosanne Cash, forse il capitolo più luminoso di tutto il lotto. La voce di Rosanne non si prende mai pienamente la scena ma resta un manto vellutato e morbido con il quale vengono avvolti sia il croon di Matt che i paesaggi sonori minimali e al contempo estremamente intensi.
Tra i capitoli che mi sento poi di isolare ci sono, poi, “Space Invader” e la conclusiva “Smoke Detector”, le tracce più lunghe del disco. La prima, stratificazione perfetta di ritmi e toni, parte inizialmente in linea con quello che era stato il mood del disco precedente riproponendo l’armonia tra le chitarre acidulate e distorte e le percussioni riverberate nella loro cadenza progressiva. Ma verso la metà, si sospende per qualche istante prima di iniziare una cavalcata irrefrenabile che spinge il pezzo a decomprimersi in una coda di caos sonoro tra biascichi alieni e accumuli rumoristici: un climax liberatorio di intransigenza che si sgretola in maniera squisitamente perfetta. “Smoke Detector” è invece una tirata semi-kraut che sfreccia come un treno in deragliamento con le sue chitarre post-punk e le reiterazioni ritmiche che vorticano in circolo punteggiate dalla ripetizione martellante della frase “You don’t know how much I love you. Do you?”
Leggendo queste parole di elogio probabilmente qualcuno avrà potuto pensare che venissero da una penna diversa rispetto a quella che ha scritto la parte introduttiva della recensione. Ed è esattamente questo ciò a cui mi riferivo quando accennavo al dissidio che ho trovato nel recensire il disco.
FTPOF aveva indubbiamente riaperto la valvola della creatività per la band che, forte del successo ottenuto con quell’uscita, ha preso il coraggio per non lasciar sopire altre tracce che non avrebbero poi trovato posto nella futura eventuale direzione discografica della band. E forse hanno fatto bene a concedersi una parentesi così, con un comfort record che li ha cullati nel mezzo della tragedia, per ritracciare semanticamente il significato del titolo.
Continuo, tuttavia, a pensare che la scelta di realizzare un unico disco, tenendo da parte le ridondanze tra i due, sarebbe stata una scelta che avrei preferito.
TRACKLIST:
1. Alphabet City
2. Deep End (Paul’s in Pieces)
3. Weird Goodbyes (feat. Bon Iver)
4. Turn Off the House
5. Dreaming
6. Laugh Track (feat. Phoebe Bridgers)
7. Space Invader
8. Hornets
9. Coat on a Hook
10. Tour Manager
11. Crumble (feat. Rosanne Cash)
12. Smoke Detector