Recensione a cura di Alessandra Sandroni
E’ arrivato finalmente il momento di gustarci l’attesissimo ritorno di una delle band più interessanti della scena musicale italiana. Gli I Hate My Village sembrano uno di quei sogni che si avverano, quando provi ad immaginare come sarebbe ascoltare una jam con i migliori musicisti italiani in circolazione, ed ecco che ti ritrovi Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Alberto Ferrari (Verdena), Fabio Rondanini (Calibro 35) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) spuntare all’orizzonte come un miraggio.
Legati dalla fascinazione per la sperimentazione, gli IHMV si sono avventurati con il loro omonimo esordio del 2019 nell’inesplorato mondo della musica africana, i cui segni indelebili porta ancora addosso Nevermind The Tempo. La fatale attrazione del supergruppo per un sound tribale è palese ma nel secondo album in studio, che segna l’approdo alla Locomotiv Records, la band di Adriano Viterbini spinge sull’acceleratore liberandosi da qualsivoglia definizione per erigere uno spazio privo di confini entro cui muoversi. Come lascia intuire l’artwork di copertina di Alessandro “Scarful” Maida, “Nevermind The Tempo”, issato su una bandiera, è un monito: scrolliamoci di dosso le aspettative, usciamo dai precetti strutturali, mescoliamo, stravolgiamo. Il linguaggio stesso è in primis libero da dettami di stile (a partire dal titolo del disco), traducendosi in un cantato che non è schiavo del significato delle parole, ma le catapulta in un universo sonoro trasformandole talvolta anche in strumento vero e proprio.
A partire da questo concetto l’apertura del disco è lasciata ai due singoli “Aritmine”, spinta da riverberi e chitarre acidissime e “Water Thanks”, che suona come un mantra, fra bassi prepotenti e presenze ancestrali. Come ci trovassimo davanti ad una foto mosaico, dove ciò che osserviamo è il frutto della composizione di moltissime altre piccole immagini, ogni canzone è una matrioska di suoni da svelare. Non perdete tempo, anche se detto in questo contesto, me ne rendo conto, suona come un paradosso: indossate le cuffie e insinuatevi nella giungla allucinata e distorta di “Mauritiana Twist”, nei sali scendi delle ritmiche impervie di “Italiapaura” o nella nebbiosissima “Erbaccia”, che vi catapulterà con i suoi riff polverosi e un cantato in trance dentro uno scantinato denso di fumo, per onorare il titolo. L’aria è rarefatta, la mente è leggera come una nuvola e a riportarci alla realtà ci pensano gli schiaffi in faccia di “Jim”.
Menzione a parte la devo fare ad un piccolo capolavoro: “Come una poliziotta”, brano che cresce sulla passione di Alberto per quello che, nel mondo del jazz, chiamano “scat”; vale a dire l’impiego di sillabe e fonemi ad esclusivo voto ritmico e melodico (quel “tika-tika couch-ta” non te lo levi dalla testa per i giorni a venire). La canzone, come raccontano gli IHMV, “nasce in un garage di Castel Gandolfo, occasione creativa in una giornata improbabile e fredda”; ed è una montagna russa di muri sonori contro i quali andiamo a sbattere ripetutamente, di esplosioni rabbiose, sbuffi e ringhi che sfumano in un ticchettio che ricorda quello della pioggia. Una botta di adrenalina da ripetere in loop.
Il secondo capitolo discografico firmato I Hate My Village è conseguenza diretta di una minuziosa e brillante ricerca dei suoni, di un abbandono costante e fedele alle suggestioni, che ci proietta nel viaggio senza meta che è Nevermind The Tempo. Un percorso sregolato che si dipana lungo dieci atti che non hanno la pretesa di raccontare il paesaggio, ma che ne diventano direttamente parte integrante.
Tracklist
- Artiminime
- Water Tanks
- Italiapaura
- Eno Degrado
- Mauritania Twist
- Erbaccia
- Jim
- Dun Dun
- Come Una Poliziotta
- Broken Mic