Live report a cura di Davide Capuano
Arrivano alcuni periodi dell’anno dove trovarsi a Bologna risulta quasi come vivere un paradosso, e tra questi sicuramente l’inizio dell’estate è il più intenso: scoccato il solstizio ci si rende conto tutto d’un colpo di come la luce del cielo terso primaverile, che finalmente inizia a rendere giustizia ai colori caldi dell’urbanistica del centro storico, stia ricoprendo un arco lungo della giornata; l’aria inizia a diventare più umida, la notte ci si sveglia facilmente, si vorrebbe stare tutto il tempo in acqua, ma intorno non ce n’è. Chi scrive, tra l’altro, è cresciuto a mare e tuttavia, ormai da qualche anno, ha deciso di tenersi tutto ciò perché qualcosa inizia a cambiare nell’aria: inizia ad esserci vita nelle strade, tutta la città prolifera di eventi culturali e il tempo sembra diventare insufficiente per vivere tutto ciò che questa città ha da offrire.
E così un weekend di caldo in città si trasforma nella perfetta cornice estiva della quarta edizione del GoGoBo Festival, rassegna di due giorni (24-25 giugno) che porta nel capoluogo emiliano alcuni degli artisti di punta della scena indie/alternative italiana (e non), all’ombra dei giardini del Baraccano. Quindici ore di musica, una varietà di genere che spazia dall’elettronica più ballabile al cantautorato che fa oscillare il pubblico, colorato ed addobbato di brillantini adesivi, tra stand di food/beverage, merchandising e artigiani handmade: la ricetta per concedersi un po’ di rinfresco è servita, ed è variegata e simpatica da esplorare.
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In apertura troviamo sempre un piccolo spazio cantautoriale: in questo day 1 tocca a Davide Amati, autore romano di stanza in Emilia-Romagna da qualche anno, che presenta la sua proposta dai sapori un po’ vintage ad un pubblico che lentamente inizia a popolare il giardino, fino all’arrivo dei Parbleu, forse la proposta che più di chiunque altro riesce a ricreare un’atmosfera estiva: un tripudio di percussioni, tastiere e motivetti funk dal sapore mediterraneo che richiamano i più noti Nu Genea e che iniziano sì a far scaldare e ballare il pubblico sulle note di pezzi dalla durata estesa, come delle jam che nessuno vorrebbe far smettere – la richiesta di bis, a tal proposito, stupisce poco. Non c’è molto spazio per gli encore, tuttavia, e mentre il dj set curato da Fabio Nirta intrattiene il pubblico tra un act e l’altro, si ha il tempo misurato di rifocillare la fame o la sete, prima di iniziare a ballare seriamente. Whitemary, tocca ammetterlo, rientra tra quel novero di artisti di cui avevo solo sentito nominare: il pro di questa cosa è che non sai mai cosa può aspettarti, e l’effetto sorpresa viene amplificato se arriva in scena un animale da palco del genere. Aliena più che alternativa, rinchiusa in un mondo tutto suo fatto di criticità e punti di rottura che esplodono nei suoi testi e nel modo in cui tiene in mano la scena, saltando tra il bordo dello stage e la sua effettistica, accompagnata da una drumpad elettronica e da un piacevole sintetizzatore Moog che dà un tono incredibilmente distinguibile ai tappeti sonori su cui si piazzano le sue basi quasi-techno, una versione tutta al femminile delle feste di Cosmo, ma più anarchica e lontana dagli schemi, che sembra ribadire la sua volontà di non poter piacere proprio a tutti – i suoi dischi non entreranno di certo in salotti letterari borghesi – ma di non poter passare inosservata a nessuno. La svolta elettronica dell’artista abruzzese si rivela poi essere solo il preludio per tre dj set di intensità crescente: l’ottimo Nosaj Thing passa quasi in sordina con un set di ottima qualità, ballabile ma che fa da antipasto al vero delirio che scateneranno prima Popolous a suon di beat incalzanti e remix dai sapori afrobeat di classici come This is America di Childish Gambino o Freed from Desire. Il pubblico è già ben messo con le mani in alto e danzante per la chiusura di Clap! Clap!: il producer fiorentino brilla con un set A/V dai sapori tribali e multiculturali, forse meno dance del suo predecessore Popolous, ma ampiamente goduto dagli spettatori. Le luci del palco riflettono sugli alberi, sono tante le braccia alzate che reggono drink e ora sì, ci ricordiamo di nuovo che è estate nella maniera più divertente possibile.
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Meno di ventiquattro ore, una doccia ed un integratore di magnesio/potassio più tardi, siamo pronti a questo day 2. E’ sempre estate, ma oggi è un’estate diversa – a partire dal fatto che è domenica, e le domeniche sono sempre un po’ particolari: un occhio rapido alla lineup e si capisce subito che non verrà offerto lo stesso mood danzereccio del giorno precedente, ma si avrà un clima più da festival italiano, con nomi che ormai da più di un decennio hanno un certo posto nel panorama nostrano. La costante resta la proposta cantautoriale iniziale, spot offerto a Glas, che apre al giovanissimo Rareș, cantautore veneto il cui pop si sta evolvendo dalla forma acustica più semplice a sperimentazioni ricche di autotune ed effetti che ormai sono melodia affermata per la cosiddetta gen Z, che oggi rimpolpa decisamente il pubblico. Il tema della giornata è decisamente difficile da inquadrare: è quello sopracitato, o è l’incantevole voce cantautoriale di Angelica che incanta tutti i presenti con il suo indie-pop? Man mano che lo si va scoprendo, emerge chiaramente che il tema principale è offrire musica che intrattenga con una certa qualità e trasporto emotivo: è per questo che il palco inizia ad essere preparato per la scenografia di Giuseppe Peveri, in arte Dente, non esattamente l’ultimo nome nell’ambiente indie-pop italiano, che porta in scena buona parte del suo ultimo lavoro Hotel Souvenir, insieme ad una raccolta di vecchi classici che fa cantare a squarciagola il pubblico numeroso accorso sulle ultime luci del giorno, tra un intermezzo ironico e l’altro: come quando in chiusura annuncia che “dopo di me verranno artisti più bravi”. Non vogliamo alimentare paragoni, Giuseppe, ma grazie per aver introdotto così i Bud Spencer Blues Explosion perché meritano tutti gli onori della cronaca: Cesare Petulicchio alle batterie è un martello ed Adriano Viterbini alla chitarra un vero e proprio genio che più invecchia e più diventa raffinato e audace, come i migliori vini. “Noi in due suoniamo come in dieci”, cantano, e forse sottostimano la magnitudo del loro impatto sonoro che coinvolge tutti i presenti, anche i meno avvezzi al genere, fortunati spettatori di alcuni brani in anteprima dal loro prossimo lavoro in uscita per La Tempesta Dischi. In chiusura a questa due giorni troviamo un alfiere del pogo, ma un tipo di pogo diverso, decisamente più colorato e hyper-grottesco: Davide Panizza in arte Pop-X presenta il suo ultimo lavoro Anal House, un tripudio di casse dritte, immagini glitchate (che non vorremmo stare qui a descrivere nel dettaglio) e ironia demenziale che fa saltare per aria tutti i presenti.
A questo punto sì, possiamo dire che il festival è concluso. Il pubblico si è divertito, ha sognato, ha ballato e ha goduto di pura energia. Tra di loro si poteva scorgere sia qualche artista che ne ha approfittato per sciogliere la tensione post-esibizione che qualche volto ben più noto dell’indie italiano. Siamo stati bene? Sì, e a volte dopo una settimana lunga e sudata non è cosa scontata trovare un attimo di break così netto, all’ombra dei folti alberi che coprivano gran parte della venue, con la possibilità di stendersi al prato tra un set e l’altro. Allora, a proposito di quel paradosso citato in apertura, a un certo punto della prima serata una persona mi ha detto “mi sembra quasi di non essere a Bologna, adesso”, mentre in realtà eravamo localizzati dentro le mura del centro storico: lì dove l’estate picchia di più, ma lo stesso posto dove ogni sera, ad ogni angolo, puoi trovare qualcosa che nutra il tuo spirito. Credo che anche quest’anno mi abbronzerò direttamente ad agosto, e in fondo va benone così.