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SMASHING PUMPKINS – Ippodromo Capannelle (Roma), 01.08.2025

Alcuni concerti hanno il potere di portarti indietro nel tempo facendoti rivivere squarci imprescindibili per l’edificazione di un genere musicale, che generalmente solo alcuni hanno avuto il prestigio di aver visto nascere in prima persona; i più si accontentano di averne ereditato l’osmosi per contingenze cronologiche ed infine una discreta fetta, i più giovani (ché per fortuna, la buona musica non andrebbe mai data per spacciata), di averne apprezzato il merito solo anni dopo grazie ad una certa dose di curiosità.

Per una delle sue ultime date estive all’Ippodromo delle Capannelle, la rassegna Rock In Roma ospita uno dei gruppi fondamentali per il grunge novantiano e per quella sensibilità estremamente complessa che si nascondeva dietro strati e strati di chitarre acide e cacofonie ritmiche: gli Smashing Pumpkins.

La band di Chicago negli anni ha avuto una produzione pressocché incessante costruendo una propria estetica che, sebbene si sia staccata progressivamente da quella matrice originaria per lasciarsi attraversare da un caleidoscopio di influenze e suggestioni (andando dallo shoegaze al pop, fino alle sempre maggiori fascinazioni dark degli ultimi dischi), ha comunque mantenuto inscritto, immutato, il seme germinale che li ha resi i frutti di un’epoca (magro tentativo, questo, di fare un gioco di parole con il nome della band, Billy mi perdonerà!).

A campeggiare dietro il palco, i loro ormai canonici totem: tre giganteschi gonfiabili coloratissimi che raffigurano secondo un gusto dal richiamo Bauhaus quelli che sembrano essere (perlomeno a me) un astronauta, una matriosca e un pagliaccio e che, come da tradizione, ad un certo punto poco dopo l’inizio del concerto, si tramutano nei loro rispettivi doppelgänger oscuri e tenebrosi. Inizio puntualissimo (anzi forse anche un pelo in anticipo) per un totale di due ore piene senza alcuna interruzione e senza mai aver avuto dei cedimenti. Se non è essere fuoriclasse questo, davvero non saprei sotto quale altra voce derubricarli!

Ad accompagnare la triade storica composta da Billy Corgan, James Iha e Jimmy Chamberlin, insieme a loro sul palco Jack Bates al basso e la new entry Kiki Wong che si destreggia in modo superlativo dietro le sei corde; tutti avvolti in un set di strumenti che avrebbe messo in crisi anche il migliore dei backliner probabilmente.

Avevo già avuto modo di vedere la band live in passato, ma sono rimasta folgorata dalla carica esplosiva che il quintetto ha sfoggiato in pompa magna sul palco di Roma: una prorompenza mirata, definitiva, estremamente composta e allo stesso tempo elettrizzante. Corgan, a metà strada tra un vampiro e un officiante sacerdote delle tenebre, con il suo talare nero, deambula di tanto in tanto sul palco disegnando in aria pochi gesti, ma catalizzando l’attenzione su di sé specialmente quando si lascia andare in dei veri e propri dialoghi con le sue chitarre. A tratti spaesato (sì, Billy, siamo proprio a Roma, ma va tutto bene anche se non te lo ricordi), con la mente nel suo mondo, chissà dove, ci regala comunque una performance vocale e sonora che non ha niente da invidiare con la folgore del passato.

Il concerto si apre con un’inaspettata chicca da Machina II/The Friends & Enemies of Modern Music, ovvero “Glass’ Theme”, alla quale segue poi una scaletta che cerca di abbracciare ad ampio raggio tutta la loro discografia, dal capitolo più recente Aghori Mhori Mei del 2024 (“Pentagram”, “999”, “Edin”, “Sighommi”) a Machina/ The Machines of God del 2000 (“Heavy Metal Machine”, “Stand Inside Your Love”, “Everlasting Gaze”). Ma, inutile dirlo, il tripudio vero si accende con i pilastri di Siamese Dream del 1993 (“Today”, “Cherub Rock”, “Disarm”, “Mayonnaise”) e di Mellon Collie and The Infinite Sadness del 1995 (“Bullet With Butterfly Wings”, “Muzzle”, “Jellybelly”, “Tonight Tonight”, “Bodies”, “Porcelina of the Vast Ocean”, “Zero”, “1979”), che prende gran parte della scaletta in occasione dei trent’anni dalla sua uscita. Corgan scherza con il pubblico dicendo che probabilmente molti di noi non erano ancora nati quando quel disco è uscito; ci guardiamo intorno e scoppiamo tutti a ridere. “Va beh, sarà che ve li portate bene gli anni perché in Italia avete il vino buono” è la sua risposta. Mah, a metà concerto siamo tutti con le braccia a conca per reggerci la schiena, alternando, sbilenchi, gamba destra a gamba sinistra come punti d’appoggio, oplà signora mia, ma sì dai l’entusiasmo non ci manca.

Bellissimi i giochi di luce con i led che sagomano i totem, cambiando spesso frequenza ed intensità, e con i fari sparati sul pubblico, piroettanti, che sembrano dei veri propri fuochi d’artificio. Su “Ava Adore” il palco diventa un bagno rosso, mentre invece “Porcelina” invade di blù l’oceano in cui navigano i cinque musicisti.

Altri highlights della serata sono stati la cover di “Take My Breath Away” dei Berlin, stupenda colonna sonora del film Top Gun, che rappresenta l’apice della quota ‘romanticherie’ di tutto il concerto (“Roma, you take my breath away!”) e un piccolo estratto di “N.I.B.” prima di “The Everlasting Gaze” in chiusura per omaggiare Ozzy Osbourne; momenti che erano stati preannunciati da chi aveva sbirciato la scaletta di Milano la sera prima (a quanto pare l’effetto sorpresa va sempre meno di moda tra il pubblico dei concerti).

Alla fine delle due ore siamo usciti, accompagnati dalla cara vecchia polvere dell’Ippodromo, con un senso di completezza che solo i grandi concerti riescono a restituire.

È stato molto bello. Grazie!

 

Immagine che rappresenta l'autore: Francesca Mastracci

Autore:

Francesca Mastracci