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The Darkness – Last of our kind

Alla seconda recensione in meno di un’ora che scrivo su band esplose a inizio anni 2000 e poi annegate nell’impossibilità di ripetersi nel successo e di ripetere la qualità dell’esordio, inizio a pensare che il revival degli anni ’90 sia finito e sia finalmente iniziato il revival degli anni ’00.
Anche solo il pensiero mi terrorizza.
Per i Darkness comunque la situazione è – fortunatamente – diversa. Questi metallari d’altri tempi in realtà dopo il pessimo secondo album sono praticamente scomparsi dalle scene per circa 10 anni e adesso tornano con una sorta di reboot della saga (Non è vero, hanno fatto un album nel 2012, ma non se li è filati nessuno).
Il gruppo capitanato dai fratelli Hawkins fu un caso molto particolare perché, quando esordì, non si limitò ad imitare le band metal di fine anni 70 inizio 80: loro ERANO una band di fine anni ’70 inizio anni ’80. Lo erano nell’aspetto, lo erano nelle movenze, lo erano nell’immaginario ma sopratutto lo erano nella musica. Quello che fu il loro fallimento anzi, stava proprio l’aver tentato un allontanamento da certi stilemi per rendersi maggiormente appetibili a fasce di audience più ampie, tradendo i fan della prima ora e non riuscendo comunque nell’impresa.

Ma quella è acqua passata e questo disco suona molto senza fronzoli e riporta con la mente ai primi pezzi. Certo, la voce di Justin non è più quella di 15 anni fa, come non lo è più l’aspetto (adesso sembra un incrocio tra Johnny Depp e Dave Navarro, ma con la solita faccia che ricorda Quasimodo) e gli acuti che ne contraddistinguevano il canto sono usati con molta più parsimonia, ma musicalmente parlando sono ancora impeccabili. I due singoli finora estratti, “Barbarians” e “Open Fire”, aprono l’album e dettano la linea, mentre a classiche ballate (Wheels of the machine) si alternano pezzi veloci (Mudslide) ed altri dal sapore blues (Hammer and Thongs)

Sicuramente il meglio che la band di Lowestoft ha prodotto fin dall’esordio di “Permission to Land”. A tratti troppo pomposo ed autocelebrativo, ma sicuramente d’impatto e comunque be fatto e ben costruito, questo è uno dei dischi più interessanti dell’estate.

01. Barbarian
02. Open fire
03. Last of our kind
04. Roaring waters
05. Wheels of the machine
06. Mighty wings
07. Mudslide
08. Sarah O’Sarah
09. Hammer and thongs
10. Conquerors

Recensione a cura di: Pucc

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