All’attivo ormai dal 2011, Giorgieness (aka Giorgia D’Eraclea) è ad oggi una delle realtà più sfaccettate ed interessanti nel panorama della musica cantautorale italiana declinata al femminile. Nel corso degli anni la sua proposta si è evoluta tanto da non restare mai attaccata ad un unico genere musicale che potesse in qualche modo vincolarla, ma mantenendo comunque sempre intatta la verve carismatica che l’ha contraddistinta sin dagli esordi, unita a quel suo bisogno impellente di comunicare le sensazioni che porta inscritte sottopelle (e che emergono tutte nei suoi pezzi, anche talvolta mettendola completamente a nudo). Un modo, questo, come ci racconta nell’intervista, per rimanere sincera sia con se stessa che con le persone che l’hanno accompagnata lungo questo percorso, segnato da tanti sacrifici ma soprattutto da un lavoro graduale e meticoloso che sulla lunga distanza le sta regalando grandi soddisfazioni e la sta portando ad acquistare, alla soglia del terzo disco, quella crescita artistica che per cui ha sempre combattuto. Di questo e di tanto altro abbiamo parlato con lei in occasione del live organizzato dal duo Forni&Carocci al locale ‘na cosetta di Roma, in un contesto unplugged molto suggestivo e colorato da simpatici momenti d’intrattenimento e tanto vino in compagnia.
Ciao Giorgia e grazie per la disponibilità. Allora, iniziamo con una domanda abbastanza topica: Come si è evoluto il progetto da quando è nato nel 2011 ad oggi?
Ciao! Allora, sai che questa è una bella domanda? Perché di solito mi chiedono come è nato il progetto. Quando ci sei dentro fai un po’ fatica a capirla questa cosa qua, ma diciamo che è successo un po’ quello che io volevo succedesse, ovvero piano piano, continuando a suonare in giro, la gente è arrivata. Ovvio, non c’è stato un botto e questa cosa ovviamente mi ha fatto fare delle domande, però allo stesso tempo mi ha reso molto consapevole di quello che stava succedendo. Essendo anche una persona che non ha mai gonfiato i numeri, non ho mai usato nessun tipo di applicazione per avere più pubblico, ma per un semplice motivo: volevo avere davvero sottomano in che modo cresceva il progetto e quindi diciamo che è davvero cresciuto come avevo in mente che potesse crescere un progetto basato molto sul live e sulla mia crescita anche personale. A 20 anni ero una persona che aveva voglia di fare casino e di urlare ed è quello che ho fatto. Andando avanti ho imparato a fare questo mestiere, che poi secondo me è la cosa fondamentale per rimanere in questo ambiente, e quindi non ho mai accusato troppo il colpo. È ovvio che uno si aspetta di fare sempre di più e questo sostanzialmente è quello che è successo. È cambiata tanto Giorgia nel senso che la mia consapevolezza, la mia autonomia è cambiata. Ad oggi riesco a portare ad un produttore un provino abbastanza finito e questo per me è molto importante perché vuol dire che sono cresciuta come musicista. Ho collaborato anche come autrice su pezzi di altre persone ed è stato molto bello. Il progetto è cambiato in questo senso. Diciamo, poi, che il progetto non è nato come un progetto solista nel senso che non avevo chiaro neanche io se volessi essere una band o una solista; ad oggi so che Giorgieness sono io e questa cosa è molto bella perché ora mi sento molto indipendente. Il progetto è cresciuto molto in indipendenza, ecco.
Hai acquistato un tuo senso di te stessa…
Sì, cioè so chi sono. Prima non sapevo chi fossi neanche come persona. Ad oggi so che sono una musicista ed è l’unica cosa che so di me.
L’unica certezza, o comunque una delle certezze della tua vita.
No no, proprio l’unica in realtà se vogliamo essere onesti. Questa è l’unica certezza che ho di me stessa.
Ti senti di aver trovato quel pezzo del puzzle che ti mancava? (Nel brano “Che strano rumore” del 2016 Giorgia cantava “e come un puzzle a cui manca un pezzo, io sono nata con questo difetto”, ndr).
Esatto! Questa cosa qui la diceva sempre mia madre quando ero piccola e mi regalavano i puzzle e ci mettevamo a farli e quando non riuscivamo lei diceva “manca sicuramente un pezzo”. Da questi piccoli dettagli della mia vita, in moltissimi casi, nascono le mie canzoni. Però sì, sono io il pezzo del puzzle che mancava e ad oggi so abbastanza bene chi sono e chi non sono, che forse è ancora più importante.
Chi non è Giorgieness?
Giorgieness non è qualcuno che usa mezzucci per arrivare dove vuole arrivare. Il che significa che soffro moltissimo perché comunque mi vedo passare davanti spesso persone che usano altri mezzi o scorciatoie che però, per quanto mi riguarda, so che non mi porterebbero dove voglio arrivare. Magari non ci arriverò mai, però ho bisogno di potermi guardare lo specchio tutte le mattine ed essere serena con me stessa. Quindi sicuramente Giorgia non è una persona che fa dei compromessi che vanno a ledere quelli che sono i suoi principi e i suoi ideali. Compromessi è ovvio che ci sono in questo lavoro, assolutamente. E non voglio dire che non farò mai nulla di assolutamente paraculo, però lo farò in un modo molto sincero. Un po’ come i miei singoli: un pezzo come “Che cosa resta” è ovvio che è molto più pop, ma è vero anche che è un pezzo che è nato in maniera molto naturale. Detto questo, sì, è un lavoro di compromessi e non ci puoi fare niente; bisogna capire quali sono quelli che puoi accettare sul lungo termine.
E questo mi porta ad una domanda che avevo intenzione di farti: quali sono le tue posizioni riguardo il compromesso trap? Visto che in questo momento è diventato un po’ un luogo comune accettarlo da parte di parecchi artisti che prima non lo avrebbero mai fatto e ciò viene in parte legittimato anche dal fatto che sia un genere molto versatile, forse il genere più rivoluzionario degli ultimi anni. Tu lo faresti?
Devo essere onesta, io vengo da un background che comprende gruppi come Blink 182 e robe del genere e quindi sono molto gasata verso quella parte un po’ più emo della trap perché mi ricorda i miei 15 anni e io, gira che ti rigira, spesso quando ho bisogno di ascoltare musica vado a riprendermi quello che ascoltavo da ragazzina. Quindi una parte della trap mi ha riportato a quel punk californiano di quando ero adolescente. Mi piace, ma non mi piace tutto. Soprattutto non mi piacciono certi stereotipi della trap. Infatti, credo che, ad esempio, Tha Supreme sia una roba molto figa che è successa, ma non mi piace il messaggio che manda in certe canzoni. Io penso che se hai una voce così importante, la puoi usare in maniera diversa, soprattutto se parli a dei giovanissimi. Perché fare la foto vignetta con le tipe che sono delle cagne, onestamente, te la puoi anche evitare. Detto questo, io salvo tanto della trap perché secondo me c’è tanta verità. Nel prossimo disco credo che andrò a ripescare delle cose belle, penso ad esempio in stile Ghali, soprattutto nella parte percussiva perché le batterie, ad esempio, sono proprio fighe e non c’è niente da fare, con ambienti grossi, riverberi, eccetera. Non credo mi sentirete mai rappare, questo no, anche se ho comunque la tendenza ad usare tante parole quindi tipo una certa trap più melodica che può essere, per esempio, un Mecna, parlando del contesto italiano (uno dei più sottovalutati in Italia però uno dei migliori). Parlando del contesto estero, Lil Peep, XXXTENTACION, arrivando anche a Post Malone. Questa parte melodica della trap mi ha dato tanti spunti che il resto del pop in questo momento non mi stava dando. Allo stesso tempo c’è da dire che l’Italia ha un po’ ucciso il rap, nel senso che il rap old school non esiste quasi più (forse c’è una playlist su Spotify ufficiale di rap). Detto questo, io sono sempre molto più propositiva verso le nuove correnti e non mi sento di demonizzare nulla.
A proposito di testi e di messaggi che vengono lanciati nelle canzoni, tu ti metti molto a nudo nei pezzi che scrivi. Quanto ti è costato negli anni, in termini di personalità, questo atteggiamento di completa sincerità nei confronti di te stessa?
Onestamente, penso che mi abbia solo arricchita, nel senso che io sono arrivata qualche anno fa, prima di registrare il primo disco, ad avere una brutta depressione, però il mio super-potere è stato il poterlo mettere dentro delle canzoni tutto questo, nel senso che senza la musica non credo che ne sarei mai uscita. Nei miei testi fondamentalmente ci sono due cose: da una parte, una grossissima storia d’amore che oggi si è conclusa, anche in un modo abbastanza netto; e dall’altra, come per esempio in “Che strano rumore” o anche “Mya” o “Calamite”, c’è tutto quello che stavo vivendo in quel momento. Di questo riesco a parlare nelle canzoni, ma per esempio ci sono cose di cui non riesco a parlare, come ad esempio dei miei genitori. Loro semplicemente si sono separati che ero molto piccola e hanno avuto una separazione difficile, e non ho dovuto superare chissà quali traumi nella mia vita però non riesco ancora a parlarne. Poi a volte ho questa cosa stranissima che non riesco a piangere per le cose serie, ma per le stronzate sì. Mi si rompe l’iphone, piango. Mi è capitato che mio nonno morisse, non riuscivo a piangere. Per concludere, riuscire a buttare fuori con la musica quello che ho dentro è molto importante per me. Mia madre mi chiede spesso come faccio a cantare “Che strano rumore” senza piangere, lei piange sempre. Io no, mi ricordo esattamente il momento in cui l’ho scritta ed è anche il giorno in cui ho fatto la foto della copertina del disco “La giusta distanza”, quella è una foto che ho scattato io. Invece, fu diverso quando cantai per la prima volta “Mya” sul palco. Mi ricordo che la prima volta che l’ho suonata dal vivo, l’ho messa per ultima, ho ringraziato e sono scappata dal palco in lacrime, poi ho preso il telefono e ho chiamato il mio manager. Ecco quello è uno di quelli che più difficile per me suonare, ma è comunque un esorcismo. Cioè mi viene molto più naturale metterle in musica certe cose che parlarne con le parole.
Come trascendere il tempo e ritagliarti il tuo spazio imprescindibile in cui poter parlare di te stessa.
Esatto, è proprio incanalare qualcosa che resti per sempre. Io tempo fa feci un post con tutte le foto di me in cui piangevo; soprattutto quando sono gli altri che mi fanno piangere e mi fanno stare così male, io scatto una foto perché non voglio più che gli altri possano ridurmi così. Io in realtà soffro molto il giudizio degli altri, anche se poi me ne frego perché di base faccio comunque quello che voglio, però ovviamente faccio un lavoro in cui sono molto esposta, per cui sarebbe anche stupido non pormi delle domande. Di nuovo, tutto dipende da che tipo di compromesso si vuole avere con se stessi, ma sicuramente nessuno mi potrà mai togliere quello che io provo sul palco. Anche se la mia carriera dovesse finire, io continuerò a suonare per sempre.
Ed è la tua ancora di salvezza che non ti ha mai fatto affondare.
Sì, è vero. Il mio manager mi ricordo che mi disse se volevamo smettere di registrare il disco e aspettare che io guarissi. Io gli ho detto di no, perché se avessi smesso di registrare io poi non avrei saputo che cosa fare. Cioè io uscivo la mattina, andavo in ospedale, facevo le mie visite e poi andavo in studio, registravo e tornavo a casa. E la mattina dopo ripartivo. Però se non avessi avuto lo stimolo del disco non so come avrei fatto. Ed è stato anche un po’ il patto con i miei medici che mi ha fatta andare avanti, nel senso che loro mi avevano imposto di arrivare a determinati risultati se volevo continuare. E io avevo troppa paura di non riuscire a raggiungere quello che per cui avevo lavorato tanto. Per cui, questo è stato sicuramente uno stimolo e metterlo nelle canzoni per me è anche un modo per essere sincera con le persone che mi hanno ascoltato allora e che continuano a farlo. Non riuscirò mai a cantare un testo che non parla in qualche modo di qualcosa che io non ho vissuto.
Com’è cambiato il tuo modo di cantare? All’inizio mi ricordo era molto pieno di rabbia, mentre adesso non dico che si sia calmato, ma comunque si sente che sei arrivata ad una tonalità di voce che accetta proprio questo compromesso di cui parlavi, lo traduce vocalmente. E questo lo si sente.
Mi fa molto piacere questo che dici perché c’ho lavorato tanto, soprattutto perché le persone che avevo attorno credevano che la mia forza fosse solo quella lì. Io non so solo urlare, so anche cantare, e c’ho lavorato tanto perché comunque per me è stato un limite imparare a cantare piano, anche se poi ho capito che riuscire a farlo ti permette di esprimere molte più emozioni. Il secondo disco ad esempio non lo ascolto quasi mai perché appunto mi sono sentita un po’ obbligata ad urlare ma semplicemente perché la linea produttiva era marcata sul fatto che io fossi forte quando urlavo. Il prossimo disco sarà davvero molto diverso anche se ancora non l’ho mai sentito finito (neanche ho scelto il produttore, per dire) però sono comunque davvero molto felice delle nuove canzoni. Ecco per me è stato molto importante fare questo passaggio perché io non ero più così arrabbiata, anzi sono diventata molto più riflessiva col tempo e non volevo più sentirmi la caricatura di me stessa continuando ad urlare. E questo è anche lo slancio che voglio assumere in questo momento. In più, me lo sono ripromesso da ragazzina, quando ho cominciato a fare questo lavoro, e mi sono detta che non avrei mai fatto un disco uguale all’altro e che il mio punto di arrivo sarebbe stato crearmi uno stile e non un genere. Questa è una delle mie più grandi ambizioni. L’altra è arrivare anche a produrre altre persone, perché ci sono poche donne che lo fanno.
Così in qualche modo lasci anche il testimone a qualcuno.
Esatto. E un po’ perché appunto un giorno magari non avrò più tanto da dire o comunque non ce l’avrò ogni anno. Magari arriverò ad un punto in cui mi potrei permettere di fare un disco ogni tre o quattro anni, e in tutto il resto del tempo voglio poter continuare ad aiutare qualcuno che si trova nella stessa situazione in cui sono stata io quando ho iniziato, cioè sapere di avere qualcosa da dire e avere il timore di non trovare nessuno che mi permettesse di farlo. Io ho continuato a sbatterci la testa finché non ho trovato qualcuno che credesse in me, però mi piacerebbe poter fare questo tipo di scouting con gli altri, cioè non essere solo una cantante perché ho tanto altro da dire.
A tal proposito, hai mai pensato di impiegare anche altri linguaggi espressivi che siano in grado, in maniera diversa, di veicolare il tuo messaggio?
Il mio sogno è scrivere un libro mi piacerebbe scrivere un libro per bambini.
Tu facevi la baby-sitter, no?
Sì, ed è stato uno dei lavori più belli che ho fatto. Però, allo stesso tempo, mi piacerebbe anche scrivere un romanzo per adulti. Ho mille idee, tipo 200 bozze con incipit diversi salvate sul computer.
Potresti fare una cosa diversa: un libro di tutti incipit.
Ah, bell’idea! Il mio ragazzo mi prende in giro tutte le volte che mi vede al computer e mi dice “stai finendo di scrivere il romanzo della tua vita?”. In realtà un libro lo avrei anche finito, l’ho scritto quando avevo 23 anni, ma rileggendolo di recente mi sono resa conto che ha molte lacune. Però molte delle cose che avevo scritto a distanza di anni poi in realtà si sono avverate davvero e questo mi fa anche un po’ paura, in effetti. Poi in realtà, relativamente alla musica, mi piacerebbe anche riuscire ad ampliare lo spettacolo sul palco e rendere il tutto molto scenico. Io da ragazzina volevo essere Beyoncé, sostanzialmente, e quindi avvicinarmi sempre di più a quel modello sarebbe un sogno. Tra l’altro ho appena fatto un video con Sam & Stenn di X-Factor e a un certo punto ballo una coreografia.
Non vedo l’ora di vederlo! Ma cambiamo argomento, che peso ha essere una musicista donna in Italia in questo momento storico?
Posso dirti una cosa? Siete voi giornalisti a farmici pensare. Nel senso che io non me lo sono mai posto il problema, cioè io non voglio essere una musicista donna, io voglio essere una musicista punto. Ed è difficile, è una merda a volte, ma se vuoi, ce la fai ad andare avanti. Detta in modo brutale, come in ogni ambito, a volte la strada è più semplice se vuoi approfittarti delle conoscenze che hai. Io ho scelto di prendere una via diversa da quella. Mi è capitato di avere storie con colleghi, ma mi sono sempre fatta i cavoli miei. Non ho mai cercato di approfittarmi di questa cosa e le persone che avevo davanti lo riconoscevano. Detto questo, è molto triste appunto vedere determinate cose perché secondo me va anche contro la nuova scena femminista che sta nascendo ed è brutto sapere che un po’ delle persone che ci arrivano, non ci arrivano solo con le loro gambe. Ma è vero anche che le musiciste donne ce ne sono tante e molte di esse non hanno fatto nessun tipo di compromesso, la stessa Levante, la stessa Adele Nigro (di Any Other) o anche Margherita Vicario, per dire dei nomi. Come ho già detto, io credo sempre che le scorciatoie non paghino sulla lunga distanza, ecco. Perché secondo me se fai compromessi di quel tipo non sei affatto femminista, ma anzi accetti di essere schiava di quel famoso patriarcato (che è una parola che odio). Cioè io credo che il patriarcato si abbatta sugli uomini esattamente come si abbatte sulle donne, perché mi è capitato di parlarci con degli uomini e provare a spiegargli delle cose e comunque le hanno capite. Con altre donne, no. In più, il discorso che sto facendo a te adesso, mi è stato rinfacciato più volte. Anche gli uomini, come le donne, sono vittime di quel tipo di mentalità. Quindi prima di tutto siamo noi donne che ci dobbiamo mettere d’accordo sul fatto che non c’è una femminista migliore o una femminista peggiore. Io voglio continuare a fare il mio lavoro senza pormi il problema di essere una donna. Ad esempio, non le voglio le quote rose. Se cerco un’apertura per un mio concerto, scelgo in base alla proposta che avrebbe più ritorno aprendo il mio concerto. Mi è capitato di scegliere uomini, mi è capitato di scegliere donne.
Detto questo, non voglio nascondermi dietro un dito. È ovvio che sia molto più difficile essere una donna, però se anche noi continuiamo ad autoflagellarci, non arriviamo da nessuna parte. Mandiamo affanculo il fonico che chiede se abbiamo bisogno di farci attaccare i cavi o si lamenta che la nostra voce non si sente nel microfono. A me è capitato che prima di sentirmi cantare mi dicessero “stai bene vicino al microfono perché sennò non ti si sente”, al che io gli urlavo nel microfono e mi dicevano “stai un po’ più lontano”.
Per me la parità dei sessi è non doverselo porre più problema. Cioè io non voglio dover salire sul un palco e chiedermi “ah, io sono una donna che fa musica”. Poi è naturale che dal punto di vista fisico delle differenze ci siano. È un po’ come dire un uomo di un metro e ottanta è una donna di un metro e cinquanta non hanno la stessa forza, è normale. E non significa che mi dà fastidio se un uomo mi apre la portiera della macchina; mi dà fastidio se lo fa perché pensa che doverlo fare. Se invece lo fa perché pensa di farmi piacere, è bello. O se il mio fidanzato, nel mese in cui lui ha guadagnato di più, mi paga il conto della cena o paga una bolletta in più, io non mi sento svilita come donna. Perché poi la volta dopo se guadagno di più io, pago io. C’è troppa chiusura mentale. Certo, la parità al 50% è bella, ed è giusta, però sulle cose importanti, sui diritti, non sulle stronzate. È una questione di diritti personali più che di gender.
Adesso ti lascio andare a prepararti per il live. Ti faccio delle domande a bruciapelo per concludere:
Se Giorgia fosse un colore?
Arcobaleno, amo davvero tutto lo spettro dei colori.
Se Giorgia fosse un piatto?
Broccoli, in tutti i modi. Tutta la famiglia: cavoli, cime di rapa, ecc.
Se Giorgia fosse una città?
Scontata la risposta, Berlino.
Se Giorgia fosse una canzone?
“Coma White” di Marilyn Manson.
Se Giorgia fosse un libro?
Ce l’ho, “Le notti bianche”.
Se Giorgia fosse un numero?
- O forse il 6, che è in numero della maglia che avevo quando giocavo a pallavolo.
Se Giorgia fosse un animale?
Facile, gatto.
Grazie ancora per l’intervista e buon tutto.
Grazie a voi, è stato un piacere.
a cura di Francesca Mastracci