Live report a cura di Francesca Mastracci
La cosa più superba è la Notte,
quando cadono gli ultimi spaventi
e l’anima si getta all’avventura.
(A. Merini)
Ho pensato molto in questi giorni così frenetici a come avrei potuto scrivere il live report per un festival così stratificato come il Club To Club, diventato nei suoi ben ventun anni di vita uno dei maggiori festival a livello europeo per avant-pop, elettronica d’avanguardia e club culture. Da dove si inizia? Come lo si può descrivere quel turbinio di sensazioni che ti trascinano per qualche giorno all’interno di una bolla di rarefazione estatica e delirante?
La risposta che mi sono data, e che spero di dare anche a voi, è che, semplicemente, non lo puoi descrivere. Racconti la tua versione, che è totalmente tua ed è diversa rispetto a quella di chiunque altro sia stato lì presente, e cerchi di farlo immaginare a chi invece non c’è stato. Perché quando le luci si spengono, nella notte, si accendono i desideri. E il Club To Club è questo: un sogno sotto forma di sinergia collettiva, di corpi che si lasciano trasportare dal ritmo, guidati dalla cassa, con le mani al cielo e gli occhi semichiusi, sentendosi improvvisamente leggeri quasi da toccare l’iperspazio con la punta delle dita. Per qualche ora, fino all’alba, sembra non esista nient’altro al di fuori di quella bolla in cui si celebra un rituale di liminalità senza tempo e senza spazio. E se in generale raccontare un festival è sempre un’impresa difficile, in questo caso lo è stato maggiormente per chi scrive proprio in visione del contesto alienante ed immersivo che l’esperienza del C2C è in grado di fornire.
Scartata l’ipotesi della cronaca completista, dunque, che sarebbe pressoché impossibile (senonché tra l’altro non nelle mie corde), riprendo gli insegnamenti di chi se ne è occupato prima di me e asserisco che il modo migliore per parlarne sia seguendo le suggestioni dei momenti che maggiormente hanno segnato per me l’incedere di questo flow perenne durato 3 giorni (il festival si è tenuto dal 2 al 5 novembre, ma noi abbiamo preso parte solo alle prime tre serate).
Dallo scorso anno è stato introdotto il nuovo simbolo di C2C: una figura alata che rappresenta l’urgenza di rimettere al centro il futuro dei corpi, la loro libertà, la necessità di aggregazione, la danza, l’educazione all’ascolto. La tematica scelta quest’anno dagli organizzatori come fil rouge è stato “Il Mondo” ovvero, contestualmente con il numero delle edizioni, il ventunesimo arcano dei tarocchi che rappresenta la sintesi perfetta di tutto il complesso del manifestato, nel riflesso cosmico di un’attività creatrice permanente. E mi piace pensare che ci fosse davvero tutto il mondo lì, sotto le scarne arcate dei contesti urbani che hanno fatto da scenario alla manifestazione. Perché è vero che l’alienazione a cui ti sottopone un evento del genere possa renderti un po’ avulso dalla realtà circostante, ma è vero anche che quest’anno non è stato davvero possibile ignorare le notizie di cronaca che venivano dal mondo. Le immagini disumane del genocidio spietato che sta devastando la Palestina, in primis, sono un colpo al cuore e, da un lato, ci si domanda perfino quanto sia legittimo anche il semplice divertirsi quando tutto intorno a te sta crollando. Ma, per una logica insita alla stessa ontologia della sopravvivenza, sono arrivata alla conclusione che sì, celebrare quanto di più genuinamente vitale ci sia è un diritto al quale non è giusto sottrarsi, anche in merito del fatto che ci è stato concesso viverlo. È stato un bel gesto, a tal proposito, devolvere una raccolta fondi per Medici Senza Frontiere come sorta di cauzione d’accredito alla quale noi tutti, guest, redattori e photo reporter delle varie testate, abbiamo contribuito.
L’evento, che si inserisce nell’ambito della Contemporary Art Week Torinese, abbraccia la città intera con eventi dislocati in varie location, tra cui principalmente l’OGR (nella serata inaugurale e in quella conclusiva) e il Lingotto (vero zenit del festival nelle sue serate centrali). Una cosa che ho sempre apprezzato molto della direzione artistica del C2C è la capacità di essere uno dei maggiori festival di elettronica senza essere solo un festival di musica elettronica. E non bisogna essere cultori del clubbing per godere dell’esperienza modulare e variegata che i vari set riescono a conferire, anche grazie alla scelta delle location. La line up di quest’anno, nello specifico, pur trovando il suo punto nodale nell’avant-pop e nell’elettronica, spaziava agevolmente nell’r&b, nel rock sperimentale, fino a toccare hip-hop, jazz e post-punk.
Si ritrovano presenze che avevano già suonato sul palcoscenico torinese – Flying Lotus, Yves Tumor e Space Afrika – e artisti che invece si affacciano per la prima volta al C2C, tra cui Caroline Polachek e Model/Actriz (entrambi per la prima volta in Italia), King Krule, Avalon Emerson, Lucrecia Dalt, Moodymann, Marina Herlop, Nick León, Overmono, Tiga, Rachika Nayar, Sangre Nueva (Dj Python, Florentino, Kelman Duran), Two Shell, Almare & Søvn.
Alcuni dei sopracitati rappresentano indubbiamente una parte dei miei highlights di queste serate. Per economia del testo e desiderio di non tediarvi con un racconto minuzioso (come era stata mia premessa non fare), mi concentrerò sulle esibizioni che mi hanno maggiormente catturata da spettatrice, senza avere la pretesa di addentrarmi in tecnicismi in merito ai set di musica elettronica che poco mi competono, ma magari soffermandomi sulle esibizioni che sento più nelle mie corde da fruitrice e reporter.
DAY ONE
Il primo giorno all’OGR parte soft con le melodie ovattate e zuccherose di Reptilian Expo alla consolle per accendersi poi gradualmente con il sound martellante della dj e producer originaria di Brooklyn Rachika Nayar, che quasi ieratica sul palco alterna al synth la sua chitarra distorta dalle vaghe reminiscenze Midwest.
Il contingente live di questa prima serata è affidato a una band che stavo aspettando di vedere con molto hype. Brooklyn torna ad essere protagonista nelle mitragliate sonore, nel caos di noise industrial e negli sferragliamenti disturbanti ed inquieti dei Model/Actriz.
Se avete letto la recensione che abbiamo curato di Dogsbody, sapete già che lo ritengo l’esordio dell’anno sulla lunga distanza. Sono un progetto molto interessante da guardare da vicino anche per capire quale direzione vogliono intraprendere. Vederli live, non ha fatto altro che avvalorare questa impressione. Distorsioni elettroniche, beat ossessivi, ipnosi claustrofobiche che si arrampicano su un asse vorticante da cui emerge la modalità declamativa di Cole Haden nell’articolare la sua voce, interpretando le lyrics con l’enfasi di una messa in scena. È una primadonna che un po’ ricorda Freddie Mercury per certe movenze e sembra si stia esibendo in realtà in un musical dove il fallocentrismo è protagonista anche quando sfodera il rossetto rosso per rifarsi il trucco.
Il resto della serata è poi affidato a due set, tra cui quello imbastito con grazia ed eleganza da Caroline Polachek che non smette di ballare un istante e coinvolge chiunque in sala, preannunciando la splendida resa che avrebbe avuto il giorno seguente in sede live sul main stage del Lingotto.
DAY TWO
Ci si sposta al Lingotto, con un’apertura delle porte anticipata al tardo pomeriggio (ore 18,00) e ci si trova inghiottiti in uno scenario architettonico industriale, riempito dalle istallazioni luminose curate da Alberto Saggia e Stefania Kalogeropoulos che irradiano splendidamente e ipnoticamente la plenitude room e la passerella tra i due palchi: il Main Stage (dove si alternano set e live performance) e lo Stone Island (dove invece la cassa dritta non accenna mai a voler diminuire di beat).
Protagoniste di questa seconda serata sono le donne. Troviamo la compositrice pluristrumentista di origini catalane Marina Herlop che ci regala una performance raffinatissima, destreggiandosi tra virtuosismi vocali, inflessioni folkloristiche dal sapore orientaleggiante e un piano tenue che arricchisce il suo synth-pop molto godibile. Subito dopo di lei, Lucrecia Dalt, che prosegue coerentemente il discorso avviato dalla Herlop, per svilupparlo a livello ritmico con l’impiego di sezioni che inseriscono la batteria al centro delle composizioni. Notevole, a tal proposito, la performance del batterista che suona con una disposizione orbitale dei piatti e delle casse.
Le altre donne protagoniste della serata sono Caroline Polachek la quale, come accennato, mette in scena uno spettacolo coinvolgente e movimentato, volteggiando sul palco senza fermarsi mai. È ammaliante quando si abbandona ai canti da sirena che inframmezza tra i cori ma è accattivante soprattutto anche per una presenza scenica che catalizza lo sguardo su di lei in ogni istante. Lei, dal canto suo, si emoziona visibilmente quando il pubblico la ringrazia calorosamente sul finale del suo set.
Dopo di lei, nello Stone Island si esibisce la regina dell’ underground/overground crossover contemporaneo, Avalon Emerson. Ma dal Main Stage, il richiamo degli Overmono è troppo forte per essere ignorato. I due fratelli gallesi Ed e Tom Russell, freschi di pubblicazione con Good Lies, si confermano artigiani indiscussi di una techno-rave d’altri tempi che non di rado cede alle lusinghe dell’hip-hop e dell’underground. Il loro set è gommoso e compatto allo stesso tempo, impietoso a tratti, ma non lesina mai in intensità nelle sue destrutturazioni elettroniche. Plauso per le visuals avvolgenti nei led perimetrali della sala, i quali coronano i beat a tempo sincronizzato.
DAY THREE
La terza serata al Lingotto è sold-out già da qualche settimana. Del resto, la line-up è a dir poco stratosferica, ma non voglio negare che il motivo principale di tale grandiosità per la maggior parte dei presenti è rappresentata dal distico centrale al cuore del programma odierno: Yves Tumor e King Krule.
Quindi andrò dritta al sodo e mi concentrerò principalmente sulle loro rispettive performance che sono state, in maniera diversa, le più intense a cui ho assistito in queste sere.
Yves Tumor sale sul palco col suo sguardo disturbante e allucinato, mettendo in scena uno spettacolo da cui emergono tutte le sue doti di artista eclettico tra carezze soul-glam e schiaffi post-punk. Fissa il pubblico acceso del Main Stage con gli occhi sbarrati di un animale in gabbia che solo sul palco riesce a liberare la sua vera indole, viscerale quanto autenticamente spregiudicata. Sembra uno spiritello malvagio dal potere salvifico per chi lo ascolta, mentre vomita tutta la sua frustrazione seguendo un flusso frammentario che si infrange nelle note spezzate delle sue fragilità o quando, irrequieto, si lascia andare in convulsioni sul pubblico mettendo a dura prova la pazienza della sua security che invece lo vorrebbe più composto. Ma lui ci tiene a mettere al centro del live il suo fisico imponente, tonico, esteticamente perfetto, che, dismesso il chiodo, lascia quasi interamente nudo, adornato solo da borchie e da pochi lembi di tessuto. La band alle sue spalle ha l’incredibile merito di star dietro ai suoi capricci e trainarlo fino alla fine del suo set, nell’andirivieni incessante delle contaminazioni sonore che lo portano a slabbrare ogni stilema, coronando un eclettismo dai tratti conturbanti eppure così profondamente intimisti.
Finita la sua esibizione, lievemente in sforo rispetto la rigidità con cui è stata rispettata fino a questo momento la tabella di marcia, le grida del pubblico acclamano impazienti il nome di Archie Marshall, il londinese Weasley dalla chioma fulva che si cela dietro il moniker di King Krule. Il cambio palco a questo punto diventa una corsa contro il tempo per accelerare la preparazione. Si spengono le luci, da dietro il palco compaiono dei disegni che sembrano quasi un richiamo alla pittura avanguardista mitteleuropea del secolo scorso, e già dalle prime note veniamo catapultati in una dimensione eterea, quasi inconsistente, che unisce eleganza ed energia, in una fusione continua di influenze e stili che attingono dal jazz per diluirsi nel blues, fino a percorrere sentieri hip-hop e alt-rock. I brani si susseguono in un multiforme interstizio di contaminazioni che spingono oltre il concetto di emozioni altalenanti, cesellando con il croon profondo e disperato di Archie ricercati bozzetti notturni: un immaginario onirico eppure così profondamente compatto.
In modo coerente, durante il suo set molto spesso le luci sono talmente basse che è quasi difficile distinguere la sua sagoma e quella dell’ensemble di musicisti talentuosi che porta con sé, tra cui il semper fidelis Ignacio Salvadores al sax (compagno di urla e sbattimento di piedi).
Devo essere onesta, forse non mi sono ancora ripresa del tutto da questo live.
Concludo il mio racconto sul C2C con una menzione, in battuta finale, all’ultimo set a cui ho assistito: quello di Flying Lotus (aka Steve Ellison). In consolle traccia con precisione chirurgica un set da fuoriclasse del groove, bottino di una carriera più che decennale con alle spalle uno storico di collaborazioni che vanno da Thom Yorke a David Lynch. Sulle note della sua stralunata e ipnotica idm, saluto questa esperienza incredibile.
Superba è la notte, come il titolo di una poesia di Alda Merini. Così recita l’insegna luminosa presente dietro la postazione del mixer appena si accede nella sala del Main Stage al Lingotto. Superba è la notte. Lo ripeto mentre vado via, con gli occhi pieni, le gambe che vacillano e il cuore che segue il ritmo dei beat che mi accompagnano all’uscita.
Questo è stato il mio primo Club To Club e anche il primo Club To Club di Ondalternativa.
Ve l’ho raccontato così, nello stesso modo in cui l’ho vissuto. Come Alice, persa in un paese in cui la meraviglia è superba e senza tempo, proprio come la notte.