Recensione a cura di Francesca Mastracci
Un loop che si apre e si chiude in se stesso seguendo dinamiche imprevedibili; un ardito e conturbante vortice sonoro che ci immerge in terreni saturi di riverberi industrial e dilatazioni elettroniche; una rarefazione sintetica di spiragli trip-hop dal gusto gothic e dall’animo profondamente radicato nel doom.
Se dovessi condensare in poche sparute frasi quella che è l’essenza dell’ultimo disco in studio della sacerdotessa indiscussa del doom metal e del drone folk rock, userei le sopracitate, conscia di non rendere la dovuta giustizia a She Reaches Out To She Reaches Out To She, settimo album in studio della cantautrice di Sacramento, Chelsea Wolfe.
Del carattere estremamente fumoso e vorticante del disco ne dà idea già il titolo stesso, disposto circolarmente sulla copertina e modulato da contorte dispersioni oblunghe, al centro delle quali emerge lei, sempre lei, catartico punto su cui convoglia la sua scrittura da sempre, come intima confessione di un’esistenza chiaroscurale che si spoglia delle proprie fragilità tra suoni talvolta distorti ed estranianti, talvolta soavi e sussurrati.
She Reaches Out… sancisce il sodalizio di Wolfe con Loma Recordings e si avvale della produzione, oltre che dell’ormai fido Ben Chisholm, anche di Dave Sitek dei TV On The Radio.
A livello sonoro ci troviamo di fronte ad un disco che segna un punto di svolta per la discografia della cantautrice, che dismette le vesti folk e, più in generale, acustiche per concentrarsi su psichedelie industrial che comunque aveva già esplorato in modo blando in Hiss Spun (2017), corroborandole con accenni trip-hop che giungono naturali o quasi inaspettati.
Sia chiaro, la componente goth, non manca mai come tratto distintivo della sua nota cantautorale, ma stavolta più che mai Chelsea Wolfe ci mostra con queste dieci tracce come sia difficile etichettare la materia sonora che tratta.
Il disco si apre con “Whispers In the Echo Chamber”, un conglomerato di sussurri adagiati su pulsazioni sottocutanee di synth e pad umbratili che irrompono sul finale diventando echi di screamo e sludge. Tra un mormorio e l’altro, si sente apostrofare “Twist the old self into poetry” che diventa un po’ una sorta di dichiarazione d’intenti per l’intero disco, nato per celebrare una sua profonda rinascita (dal 2021 è sobria dalla dipendenza alcolica) e per farsi portavoce delle ferite di relazioni abusanti alle quali si è trovata ad assistere in terza persona, ma molto da vicino.
“House of Self Undoing” e “Everything Turns Blue” proseguono oscillanti seguendo una dinamica interna che sembra una corda che si annoda e scioglie costantemente, spezzando i sintetici trip solfurei e dark con i suoi canti di sirena. Quasi i Portishead che incontrano i Nine Inch Nails.
“Liminal”, strategicamente in posizione centrale per rimarcare l’importanza del concetto di ‘soglia’ presente in maniera sottesa in tutti i pezzi, sembra invece quasi una reprise da Pain Is Beauty (2013), dove tra ombre e increspature si fa strada un trasporto evocativo più melodico che si disperde in una mini suite finale di fraseggi ammalianti lentamente spenti nel silenzio.
Più o meno lo stesso piglio avrà nella parte finale “Place In the Sun”, che però lo traduce in nervose virate dalla compattezza sonora, minuziosamente cesellate in squarci IDM.
Compendio alla finale, e a mio avviso più avvincente, traccia del disco: “Dusk”, i cui ritmi elettronici, cadenzati dalla voce sempre soffusa ed estremamente emozionale di Wolfe, si infrangono nella violenza liberatoria sul finale del pezzo di chitarre elettriche e batterie portentose. Anche qui, un outro di 10 secondi di silenzio per controbilanciare la vertigine e dare modo agli ascoltatori di scegliere se restare in equilibrio o gettarsi nel vuoto.
“And I will go through the fire
And I will …”
TRACKLIST:
1.Whispers In The Echo Chamber
2.House Of Self-Undoing
3. Everything Turns Blue
4. Tunnel Lights
5. The Liminal
6. Eyes Like Nightshade
7. Salt
8. Unseen World
9. Place In The Sun
10. Dusk