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THE WONDER YEARS – THE HUM GOES ON FOREVER

THE WONDER YEARS

THE HUM GOES ON FOREVER

Recensione a cura di: Francesca Mastracci

Ci sono cose che, per quanto tu possa sforzarti, sembrano destinate a voler durare nel tempo, senza estinguersi mai del tutto. Ma, accanto a quei bagliori che hanno il potere di illuminarci l’esistenza (come cantava il buon caro Moz), talvolta bisogna fare i conti anche con zone d’ombra che invadono gli interstizi più remoti dell’anima. E non se ne vanno.

E i respiri affannati, i singhiozzi più disperati, tutti quei silenzi senza parole diventano allora una nenia da cui farsi cullare, mentre ripeti a te stesso che passerà. Ma poi non passa mai del tutto. So, the hum goes on forever.

È questo il nucleo tematico dell’ultimo disco in studio dei The Wonder Years, come del resto di tutta la loro discografia se vista ad ampio raggio. Dai loro esordi (con Get Stoked on It! del 2007), però, sono cambiate molte cose per la band emo pop-punk originaria di  Lansdale, Pennsylvania. E mentre nei primi dischi il sentimento pregnante era quello di ragazzi del college che vivevano l’insoddisfazione di sentirsi intrappolati in una realtà territoriale limitante, The Greatest Generation del 2013 divenne poi un manifesto generazionale del disagio e delle ansie nel passaggio dalla post-adolescenza all’età adulta. Sentimento che, mutatis mutandis, è arrivato a confluire album dopo album nell’ansia di essere ormai diventati adulti tra l’emergere di nuove apprensioni genitoriali e la difficoltà di far conciliare le aspettative di una vita con la sterilità empatica dei tempi attuali. Dan ‘Soupy’ Campbell, con la sua narrativa estremamente immaginifica e toccante, racconta in questo disco (il settimo della loro discografia, ndr) di come quella depressione congenita che da sempre si porta dietro abbia assunto una nuova forma ora che è diventato padre  (di Wyatt, a cui è dedicato il pezzo che ne porta il nome).

Ritroviamo tra le lyrics la ricomparsa di personaggi che avevamo già incontrato altrove. La Colleen di “Coffee Eyes” adesso è in “Paris of Nowhere”, Madelyn del pezzo omonimo in The Greatest Generation è ora la protagonista di “Oldest Daughter”, “Cardinals II” è letteralmente la prosecuzione del primo capitolo contenuto in No Closer To Heaven (del 2015). Ma la tracklist è piena di altri riferimenti intertestuali che vanno a creare una continuità tematica del tutto coerente con il fluire continuativo di quel bisbiglio eterno (di cui, per l’appunto, il titolo dell’album).

A prescindere dalle applicazioni specifiche dei testi, le emozioni che ne emergono riescono a toccarci nel più profondo proprio grazie alla portata universale della storia che narrano e che é condivisibile per gran parte di noi che li ascoltiamo ormai da anni: quella di come, nonostante tutto, si riesca a trovare ogni volta un pretesto diverso per non soccombere.

“I don’t wanna die”: inizia così, secco e lapidario, senza un minimo di previo adagio strumentale, il brano che fa da apripista all’intero lotto, “Doors I painted Shut” (che un po’ fa eco a “Passing Through a Screendoor” del 2013). Il resto del pezzo si snoda in un crescendo che arriva ad esplodere con l’urlato spezzato di Dan tra il fragore ritmico della batteria nella parte finale e delle chitarre super tirate.

Il disco procede poi spedito, seguendo un’andatura ben decisa per tutte le tracce che compongono la tracklist, concedendosi di tanto in tanto momenti di maggiore rallentamento in cui l’atmosfera si carica di intensità e di dolcissime trame strumentali (“Laura & The Hive” e la conclusiva “You’re the Reason I Don’t Want the World to End” sono un esempio). Benché l’incisività più smaccatamente fragorosa dei primissimi esordi abbia da tempo lasciato spazio a melodie più dismesse, che volentieri pare vogliano abbracciare l’alternative, gli slanci emo punk costituiscono ancora l’elemento midollare del loro sound (“Old Friends Like Lost Teeth” sembra essere una reprise da Suburbia I’ve Given You All and Now I’m Nothing).

Ho ascoltato molto questo disco prima di poter scrivere una mia opinione in merito. Ci sono pezzi che sono dei veri pugni allo stomaco e hanno la forza di penetrare negli squarci più profondi della nostra . Le loro doti interpretative riescono a caricare i testi di una tensione irrisolta alla quale, se la riconosci in te, non puoi restare indifferente. Come per tutto il resto della loro discografia, ci sono capitoli che, se non meno potenti, tuttavia risultano meno convincenti e che non dispiace troppo skippare.

Nell’insieme, però, l’ho trovato un disco molto coerente sia con la loro produzione che con la premessa generale  della specificità temporale che riveste. Riesce a far convivere il passato e il presente in una negoziazione costante di espedienti per restare a galla, nonostante il richiamo dell’abisso, cristallizzando un riflesso capovolto di quello che siamo diventati (come raffigura anche la copertina del disco).

TRACKLIST

  1. Doors I Painted Shut
  2. Wyatt’s Song (Your Name)
  3. Oldest Daughter
  4. Cardinals II
  5. The Paris of Nowhere
  6. Summer Clothes
  7. Lost in the Lights
  8. Songs About Death
  9. Low Tide
  10. Laura & the Beehive
  11. Old Friends Like Lost Teeth
  12. You’re the Reason I Don’t Want the World to End

 

VOTO: 8

 

Immagine che rappresenta l'autore: Francesca Mastracci

Autore:

Francesca Mastracci