Specifichina; forse non troppo necessaria, forse però un po’ sì. Sono trascorsi più di venti anni da quando i Refused rivoluzionarono totalmente la scena del punk e post-hardcore internazionale, gettando le basi per la ridefinizione stilistica di un genere che era destinato a mutarsi nelle forme e nei contenuti a cavallo tra la fine di un millennio e l’inizio degli anni Zero. The Shape of Punk to Come fu il manifesto messianico che la band svedese di Umea consegnava come lascito a tutta una generazione di musicisti, che ne raccolse immediatamente l’eredità, investendola del peso di una sorta di rivelazione epifanica. E non a torto, poiché l’impatto che ebbe fu quanto di più inaspettato e visionario si potesse auspicare alla fine degli anni Novanta. Era un canto di sirena che coinvolgeva punk, hardcore, con strascichi metal ed inserti che lambivano la techno fino ad arrivare alla folk music, il tutto incanalato però in un’impostazione jazzistica intransigente che ne punteggiava la sezione ritmica in maniera estremamente originale (il titolo stesso era un riferimento al disco del ’59 di Ornette Coleman). Per non parlare inoltre del denso apparato citazionistico di cui si nutrivano i brani (tra campionamenti cinematografici e passi letterari inframmezzati nei testi). In somma, si trattò di un vero e proprio congegno detonatore, concepito in ogni suo singolo dettaglio per generare un’esplosione unica ed irripetibile nel suo genere dalla quale non sarebbero usciti illesi nemmeno loro stessi che l’avevano programmata. E questo lo sapevano bene già nel momento in cui stavano producendo il disco, tanto da incastonare nella tracklist quello che sarebbe stato il loro estremo canto del cigno, “Refused Are Fucking Dead”, usato poi anche come titolo del documentario del 2006 che raccontava l’infelice storia della loro separazione, che pure era sembrata al cantante Dennis Lyxzén e agli altri membri della band una soluzione inevitabile, quasi necessaria, per non finire di distruggere quello che avevano creato. Era il 1998 quando uscì il disco. Ma i Refused, saturi del loro stesso senso di irrequietezza, erano già un ricordo.
Eppure, ad un tratto, complice un tour di reunion, complice un’esigenza musicale ed espressiva che non avevano ancora estinto del tutto e complice anche quel grido di ribellione che avevano sempre portato nel loro sangue, nel 2015 tornano con Freedom, un comeback album che deluse tutti i fan che si aspettavano un lavoro alla stregua della grandezza gargantuelica del suo predecessore. Ma, per fortuna, a parte quella schiera di fan oltranzisti all’inverosimile, c’era stato anche chi era riuscito a cogliere il valore e il peso che il disco si prestava a coprire e che, a dire il vero, così schifo non faceva.
Ottobre 2019. Esce War Music, che ha un po’ il compito ingrato di recuperare quella porzione di animi non del tutto convinti dalla precedente prova di ritorno della band. Ed è un peccato che debba avere questa connotazione per molti, perché se lo si ascoltasse per quello che è davvero ci si renderebbe immediatamente conto di due cose in sostanza imprescindibili:
- che i Refused 2.0 del post-reunion non hanno mai cercato di ricavalcare l’onda dei tempi passati ed essere la brutta copia di se stessi, ma che anzi hanno avuto il coraggio di affrontare con maturità e consapevolezza il fatto che non sarebbero mai più riusciti a bissare i risultati inarrivabili di The Shape;
- che formalmente la configurazione di quel punk che avevano preconizzato nel ‘98 è stata superata e c’era bisogno ora di ricostruire una nuova cartina tornasole che raccontasse una nuova storia musicale ed il mutato contesto socio-culturale con lo stacco di due decenni.
Ed ecco allora che, presa la dovuta considerazione di ciò, si profilano in tutta la loro potenza i connotati di questo inno di guerra battagliero e pieno di veemenza che è War Music: disco intenso e stratificato, espressione di una presa di posizione lucida, la quale in realtà risponde agli stessi imperativi che avevano dato forma a quel manifesto che era stato suggellato sotto il grido di “we need new noise” (dal pezzo “New Noise”).
Dal puto di vista tematico, il disco continua a portare avanti l’impegno politico che ha da sempre rappresentato uno dei capisaldi della band svedese, scagliandosi contro il sistema capitalistico imperante e l’ascesa di nuove forme di autoritarismo estreme che minacciano la democrazia e i diritti inalienabili che ogni essere umano dovrebbe avere in quanto individuo e membro di un gruppo sociale. Il bisogno della rivoluzione anima ogni traccia già a partire dall’opener “REV001” (dove la voce urlata di Dennis trova un perfetto controcanto nei cori soavi ad opera della cantautrice Miriam The Believer).
Musicalmente mancano, ovviamente, gli zampilli genialoidi e gli strappi inaspettati che avevano reso il disco del ‘98 un qualcosa di indiscutibilmente perfetto. Ma se, appunto, si mette da parte un metodo di giudizio improntato sulla ricerca del difetto nel termine di paragone, si impareranno ad apprezzare anche le note di merito che lo costituiscono. Come ad esempio nella cura al puntino svolta sulle sei corde da Kristofer Steen nei riff taglienti di “I Wanna Watch the World Burn”, nell’andirivieni tortuoso, e in alcuni punti al limite del metal, in “Damages III” e “Turn the Cross”, o nell’acutezza sincopata di “Malfire” (con un intro che strizza l’occhio alle chitarre di Adam Jones dei Tool). Approccio confusionario in loro pieno stile e poetica punk hardcore con una dose anthemica massiccia per “Blood Red”, primo singolo estratto, fortemente deflagrante ma un’asticella sotto rispetto a quanto avrebbero potuto essere le sue potenzialità in nuce. Forse, da questo punto di vista, gli ultimi due capitoli del disco (“Infamous Left” ed “Economy of Death”) sono i più interessanti dal punto di vista strutturale. Ben posizionati anche gli inserti goth in “Death in Vännäs” con gli archi che si snodano lungo belle linee di synth.
Infine, un disco corposo e pieno di sostanza, amabile all’ascolto e sicuramente versatile sul piano live. La caratteristica che rende davvero interessanti tutti i lavori dei Refused, compreso quest’ultimo, è la loro capacità di sapersi muovere lungo traiettorie di volta in volta in via di definizione, mantenendo sempre una certa coerenza stilistica nel concetto di discontinuità. Continuano a rifiutarsi di restare incollati a qualsiasi preconcetto o idea che non sia legata al loro proprio senso di libertà identitaria. Una nuova forma di punk è stata creata e suona più o meno così, che vi piaccia o no.
Tracklist:
- REV001
- Violent Reaction
- I Wanna Watch The World Burn
- Blood Red
- Malfire
- Turn The Cross
- Damaged III
- Death In Vännäs
- The Infamous Left
- Economy Of Death
A cura di: Francesca Mastracci