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Ondalternativa

FONTAINES D.C. – ROMANCE

My childhood was small
But I’m gonna be big
But I’m gonna be big

“Big” – Fontaines D.C., 2019

 

Come spesso accade quando ci troviamo di fronte ad un evento storico eclatante che scombussola le nostre vite, ricordo esattamente il momento in cui ho ascoltato per la prima volta i Fontaines D.C., eleggendoli come una delle mie band alive preferite. Erano i primi mesi del 2019 ed era appena uscito Dogrel; in un negozio di dischi a Bologna c’era appeso il poster del disco dove veniva presentato già come l’esordio dell’anno. Il nome non mi suonava nuovo, lo avevo sicuramente letto in qualche playlist di discover weekly, ma non li avevo mai approfonditi del tutto (ah, quella cattiva abitudine di voler fagocitare sempre più roba, senza scendere in profondità, che l’industria musicale ci spinge ad adottare – ma questa è un’altra storia). Tornata a casa, misi su Dogrel per intero dall’inizio alla fine, come va fatto con tutti i dischi. Inutile dirlo, ne rimasi folgorata. Post-punk ficcante, viscerale, raffinato nei suoi accenni new-wave, ossessivo e cupo.

Faccio questo preambolo non tanto per celebrare quella boriosetta postura del c’ero arrivata prima io (di cui comunque pure mi compiaccio – suvvia, va detto), ma perché in primis permette di inquadrare il modo in cui il mio apprezzamento della band sia andato di pari passo con la loro crescita e conseguente evoluzione stilistica.

Lo scorso 23 agosto è uscito Romance, il quarto album in studio della band irlandese che, senza troppi misteri, di Dogrel non porta più nemmeno un vago ricordo.

Al primo ascolto sono rimasta spaesata, non lo nego, benché comunque me lo aspettassi. I quattro singoli che erano usciti negli scorsi mesi per anticipare il disco (“Starburster”, “Favourite”, “Here’s The Thing”, “In The Modern World”) avevano nettamente marcato la nuova direzione verso la quale si stavano dirigendo.

Eppure, eppure.

ph. Theo Cottle

In questi giorni ho riletto le recensioni che avevo scritto di A Hero’s Death e Skinty Fia per ricostruire un quadro, almeno nella mia mente. I Fontaines D.C. hanno avuto il merito di aver realizzato tre lavori giganti, marcati da un’esponenziale crescita artistica che li ha portati a toccare vette altissime in soli quattro anni dal loro esordio. E beh, non è un traguardo da tutti contare 3 su 3 dischi dell’anno di fila. In maniera declamatoria, scrivevo nell’ultima recensione che con loro “si era fatta la storia”.

Stacco.

Due anni dopo Skinty Fia.

Grian Chaten ha pubblicato un disco solista intimo e minimale che ha ottenuto moltissimi consensi (Chaos For The Fly). Gli altri membri della band si sono dedicati ai loro progetti di interesse personale (colonne sonore, scrittura, figli).

2024: i Fontaines D.C. firmano un contratto discografico con una major, la XL Recordings, salutando così Partisan Records che li aveva accompagnati sin dai loro primi passi.

Romance è un disco che in tutti i suoi aspetti traspira odore di major, e questo è un dettaglio che non può non essere considerato. Certo è che, dopo il percorso ascendente che avevano intrapreso, era anche abbastanza inevitabile arrivare al punto in cui avrebbero raggiunto così tanto interesse, sia da parte del pubblico che da parte delle case discografiche. E non è giusto, mi viene da pensare, il dover ripetere in maniera modulare un formulario consolidato solo perché si e capito che funziona (stesso discorso che facemmo qualche mese fa parlando di TANGK degli Idles). Anzi, dovrebbe essere imprescindibile concedersi il privilegio di una svolta artistica se lo si ritiene necessario. A maggior ragione se, guarda caso, la svolta in questione denota un’accresciuta sensibilità melodica che abbraccia un gusto più popolare, a discapito di quella cripticità e quell’oscurità che pure avevano attirato i fan della prima ora.

Una svolta dunque che arriva seppur non a livello programmatico comunque a livello fattuale; hey è successo, ci piaceva così ed è così che abbiamo fatto: questo è il messaggio che traspare dalle interviste rilasciate dalla band. Ma del resto qui nessuno sta facendo il processo delle intenzioni a nessuno. Ci si riempie tanto la bocca con la questione dell’identità che spesso si perde il senso della misura nel capire che in fondo è una materia che non ci spetta troppo analizzare. Parallelamente però mi torna in mente un’intervista di non troppo tempo alla NME  in cui Grian Chatten dichiarava che essere creativamente capiti da tante persone per lui era un po’ come sentirsi ricoperti da uno sciame di mosche attirate ad ammassarsi sul tuo corpo; ad un certo punto senti il bisogno di darti una scrollata netta di dosso per tornare a rivedere te stesso al di sotto.

Non so quanto questa affermazione possa aver senso ora che sembra che i “boys in the better land” abbiano dimenticato l’insetto-repellente a casa, ma di certo una cosa che ho notato con molto piacere è che nonostante la patina pop, c’è sempre uno scrollata di spalle, uno squarcio di disturbo che fa intravedere quell’irrequietezza di fondo che mi aveva tanto colpita nei dischi precedenti.

È il respiro affannato che mozza il fiato facendoci restare in apnea in “Starburster” , il doom sulfureo in “Romance”, sono le struggenti orchestrazioni dietro gli aneliti interrotti di “In the Modern World” o i falsetti esacerbati da toni lugubri in sottofondo a “Desire” o anche quel retrogusto di nenia che grava su “Motorcycle Boy”, e l’incedere ritmico disturbato con tanto di schegge rumoristiche impazzite sul finale in “Horseness Is The Whatness”.

Ed è da questi squarci nel cielo di carta color verde brat che mi piacerebbe (ri)partire.

Romance, il quarto disco di Fontaines D.C. si presenta innegabilmente come un lavoro ben scritto sia a livello lirico (la cura nei testi è, come sempre, ineccepibile) che a livello compositivo; con una produzione di alto rango affidata a James Ford, maestro delle evoluzioni patinate (lo ricordiamo dietro il mixer degli ultimi dischi degli Arctic Monkeys – di cui, non a caso, i Fontaines hanno aperto molte delle date del tour nel 2023 – e dei Blur di The Ballad of Darren, tanto per citare i nomi più recenti).

ph. Theo Cottle

Un disco con i piedi ben piantati negli anni Novanta che sguazza nel brit-pop di vecchia guardia anche in maniera abbastanza spudorata (“Bug” sembra a tutti gli effetti strizzare l’occhio a quei due fratelli di Manchester, che forti proprio di quest’ondata revival imperversante nella scena rock mondiale hanno pensato bene di tornare in campo con una reunion che forse davamo tutti un po’ per spacciata ormai – chissà se temevano di essere spodestati da un certo gruppo di Dublin City).

Oltre questo, troviamo un ventaglio ampio di riferimenti musicali, che lambiscono il trip-hop e lo shoegaze (come “Sundowner” scritta dal chitarrista Conor Curley, che per la prima volta presta la sua voce da protagonista in un pezzo), ma non mi addentrerò ad elencare la lista di chi o cosa ritroviamo in questo disco, come ho letto su svariate testate. Mi fa sorridere, anzi, la corsa citazionistica praticata come se finora la band non ne avesse fatto una prassi comprovata, dimostrando ad ogni lavoro uno smaccato gusto nel rivomitarci addosso tutte le influenze che hanno nutrito l’elaborazione del lavoro in corso d’opera.

In merito alle tematiche, lo sguardo si sposta dalla centralità dublinese che aveva, in maniera arteriosa, attraversato i tre lavori precedenti, per proiettarsi stavolta in un luogo altro che non ha una vera e propria geolocalizzazione. L’esistenzialismo irrequieto di questo album si situa negli interstizi di un fuoriluogo straniante che veicola il cuore (cyberpunk, sic) dell’opera: “maybe romance is a place”. E aggiungono nell’omonima traccia apriprista: “for me and you”, in ripetizione ossessiva, troncando in ultima battuta la frase con un “and” che lascia sospesa ogni possibilità di completamento.

Proprio riguardo la title-track, il suo posizionamento come traccia opener ci introduce immediatamente in un territorio cosparso di magniloquenza cinematografica, molto consistente in questo disco, nonché uno degli aspetti, a mio avviso, che ne decretano la bellezza. C’è una parte di me fermamente convinta che aver ascoltato per la prima volta i singoli estratti proprio mente ne visualizzavo i video (di cui consiglio la visione, soprattutto per i due ultimi corti di “Here’s The Thing” e “In the Modern World” che portano la firma in regia di Luna Carmoon) abbia legato in modo inestricabile nella mia mente i suoni con le immagini, favorendone il mio apprezzamento.

Altro punto a favore di Romance è l’incredibile articolazione vocale di Chatten in ognuna delle tracce, navigando su una varietà di registri espressivi (come accennato in precedenza) che lo consacrano ad interprete sublime delle sfumature più cupe del nostro vivere moderno, così dannatamente patinato, così sfrontatamente fluo.

La band sul main stage del Reading Festival 2024 – ph. Andy Ford

Interessante anche che tra le ballad più intimiste ci siano pezzi che li riallacciano a filo stretto con la cara vecchia Dublino: “Horseness Is the Whatness” (pezzo scritto dal chitarrista Carlos O’Connell il cui titolo è tratto dall’Ulysses di James Joyce, che è un po’ la loro coperta di linus sin dal minuto zero della loro carriera) e “The Favourite” (la cui dedica alla madrepatria è ulteriormente suggellata da un video con i ricordi di infanzia della band). Quest’ultima traccia in qualche modo rappresenta un malinconico e tenero commiato che chiude il cerchio del disco proprio laddove era iniziato. Se è vero che romance is a place, allora è the favourite.

Chiudo queste lunghe pagine con una considerazione di merito riguardo un disco che sicuramente non passa inosservato per le sue ottime doti compositive.

Tuttavia, perché c’è un tuttavia, nell’insieme non ho trovato in Romance lo stesso pugno nello stomaco che erano stati per me i dischi precedenti, pur decretando “In the Modern Word” come uno dei miei pezzi preferiti della band.

Con molta probabilità, Romance sarà il disco più venduto dei Fontaines. Quindi sicuramente ad altri sarà arrivato un quid che non è arrivato a me.

Credo, però, che ognuno di noi ricerchi nella musica qualcosa di diverso. Per me i Fontaines D.C. erano quel pugno nello stomaco lì e, non avendolo trovato in maniera così netta in questo disco, sono rimasta un po’ con l’amaro in bocca.

Ciò non significa che comunque sia un gran bel disco.

Tracklist:

  1. Romance
  2.  Starburster
  3. Here’s the Thing
  4. Desire
  5. In the Modern World
  6. Bug
  7. Motorcycle Boy
  8. Sundowner
  9. Horseness Is the Whatness
  10. Death Kink
  11. Favourite

 

Immagine che rappresenta l'autore: Francesca Mastracci

Autore:

Francesca Mastracci