Live Report Built To Spill,
Blackout Rock Club, Roma,
13/09/2013
Sono trascorsi circa cinque anni dall’ultima volta che i Built to Spill sono venuti a Roma; allora ero
giovincello, avevo un gran sonno e loro hanno suonato per intero Perfect from Now On, probabilmente uno
dei migliori lavori in assoluto. Altri tempi, altre persone, altre problematiche.
Li riprendiamo oggi, dopo
tanto tempo, e cosa è cambiato? Tutto. E niente.
Innanzitutto questo tour non è legato a nessun album in particolare, considerando che There is no Enemy è
del 2009, si tratta semplicemente di una buona occasione per Doug Martsch e soci per suonare un po’ e
stravolgere completamente le loro scalette.
Non posso mancare di notare come in apertura ci siano gli svizzeri Disco Doom, band che ha presenziato
anche per il tour del 2008 e che allora regalò pure la birra a noi che eravamo in prima fila. Stavolta niente
birra, uffa, ma una buona esibizione convincente di indie rock con dosi di noise e sperimentazione.
Rimango
sempre vagamente stupito dal pulitissimo accento inglese di uno di Zurigo, ma vabbè, dettagli.
Venti minuti dopo, di fronte a un pubblico abbastanza folto, salgono Doug e soci, attaccando subito con la
vivace Goin’ Against Your Mind, sicuramente un’ottima scelta per attaccare con una certa decisione.
Seguiranno altre selezioni più che adeguate come You Were Right (da Keep it like a secret) e Stab, con
un’attitudine molto più aggressiva rispetto al passato e un attacco di tre chitarre che renderà
particolarmente in quei pochi momenti davvero concitati come Pat.
La band andrà a chiudere il set dopo un’ora e venti con l’ottima Carry the Zero e fin lì, devo dire che la mia
impressione era di aver piacevolmente ritrovato un amico che non vedevo da molto tempo. Non avrei mai
sospettato che le note dolenti sarebbero arrivate proprio con un lungo encore di quasi mezz’ora.
Ignorando le numerose richieste del pubblico di suonare Broken Chairs, la spettacolare chiusura di Keep it
Like a Secret, i Built to Spill si lanciano in ben tre cover. E davvero la mente vacilla di fronte alla scelta di
suonare How soon is now degli Smiths, ESATTAMENTE IDENTICA alla versione album. Per quale motivo una
band dallo stile Neil Young di lunghe schitarrate dovrebbe scegliere una canzone così immobile e semi-disco
come quella, proprio non lo so. Ironia? Devozione? Boh, fatto sta che la noia è stata inevitabile e il tedio ha
raggiunto, poi, livelli assoluti con la successiva Age of Consent.
Ci si ritira su proprio con una cover di Young, la mitica Cowboy in the Sand, qui con un’interpretazione
giustissima e lunghi assoli, proprio come ci piacciono, ma il danno ormai è fatto. Si conclude con
l’immancabile Car, pezzo che a quanto pare non può proprio mancare nella scaletta dei nostri.
Capita sicuramente che un vecchio amico che non vedi da anni ti faccia provare emozioni miste, e così è
stato con i Built to Spill, da un lato un piacere ritrovare pezzi come Stop the Show, dall’altro discutibili
scelte di scaletta chiudono una serata dal chiaro sapore agrodolce.
A cura di Damiano Gerli