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Ondalternativa

i cani – post mortem

Non se lo aspettava nessuno. Lo stavamo aspettando tutti.

Con queste parole l’etichetta discografica 42 Records la mattina del 10 aprile, esattamente una settimana fa, ci dava il buongiorno, lasciandoci tutti interdetti in balia di sensazioni ambivalenti: incredulità, gioia, forse anche un po’ di timore (perlomeno, per quanto mi riguarda, ma su questo ci torneremo). Il post in questione ritraeva la copertina dell’ultimo, attesissimo e inaspettatissimo, disco de i cani dal titolo più che mai incisivo post mortem.

Una release dismessa, come sta ad indicare anche la rinnovata trascrizione in minuscolo del nome della band e delle tracce del disco, che ha messo da parte tutti quei discorsi sull’hype con i quali il mercato discografico odierno ama impinguarsi attraverso una valanga di comunicati persistenti, conti alla rovescia infiniti, un’uscita al mese per almeno 3-4 mesi prima di pubblicare il disco per intero o annunci che talvolta travalicano l’anno. Tutta una solfa per assuefarci all’attesa, in un’epoca in cui non riusciamo a mantenere nemmeno la soglia dell’attenzione oltre un minuto di reel. Ma lo sappiamo, Niccolò Contessa sostanzialmente dei dictat della sovrastruttura musicale non se ne è mai fregato troppo.

E così, il cantautore romano ha rimesso insieme la sua one-man band per scrivere, suonare, cantare e registrare questo nuovo disco con la collaborazione di Andrea Suriani che ne ha curato il mix e il master.

Nove anni di distanza da Aurora (2016); nel mentre, qualche collaborazione (tra cui quella più recente lo scorso anno con i Baustelle), qualche colonna sonora, qualche produzione (Tutti Fenomeni in primis), ma nulla che lasciasse presagire un nuovo album di inediti.

Al primo ascolto ho pensato “bel disco”. Al secondo e terzo ho pensato “sì, bel disco ma devo riascoltarlo per capirlo meglio”. Poi l’ho riascoltato, eccome. L’ho riascoltato un numero inquantificabile di volte perché sentivo che c’era qualcosa che in quei primi ascolti non ero riuscita a cogliere pienamente e che, per questo, mi aveva lasciato un po’ di amaro in bocca. Messa da parte l’enfasi del primo momento e anche la soddisfazione per avere tra le mani un prodotto musicalmente valido, c’era un tassello che dovevo ritrovare (probabilmente in me stessa, prima ancora che nel disco).

Il fatto è che per noi millennial che negli anni ’10 scoprivamo l’estetica hipster e ci avvicinavamo a quella sensibilità sonora lo-fi, cantautorale e sgangherata che i più chiamarono indie, i cani rappresentavano davvero un’istituzione; “Il sorprendente album d’esordio de I Cani” (2011) e “Glamour” (2013) sono dei vademecum per la fenomenologia post-adolescenziale dei nostri tempi. Ci eravamo innamorati del loro modo di raccontare i nostri disagi generazionali con una narrativa che aveva avuto il merito di fotografare con schiettezza e disincanto, e anche un pizzico di sfrontatezza, in analogico e con una punta di glitch, quello che stavamo provando. Si era stabilito un rapporto di connessione tra noi e la penna di Contessa tale che in qualche modo ci teneva in dialogo costante, anche quando avremmo riascoltato quei pezzi a distanza di anni con un velo di tenera malinconia. Ed ecco che è arrivato il mio timore.

Niccolò Contessa, autoscatto.

Fin da subito, di questo disco ho apprezzato molto che non ci fosse autoplagio ma che anzi ogni pezzo aveva una sua propria identità, diversa sebben estremamente coerente con il resto della discografia della band. Non era stato fatto sfoggio di nessuna operazione nostalgia, il che non era affatto scontato.

Quello che sentivo venir meno dopo i primi ascolti di post mortem, tuttavia, era probabilmente quella sorta di dialogo generazionale che avevano intavolato gli album precedenti. Come se quello de i cani degli anni ’20 improvvisamente si fosse fatto un linguaggio incapace di raccontarci totalmente per come eravamo diventati. O meglio, ci raccontava ma lo faceva in un modo non così impattante come 10(+) anni fa.

Poi mi sono detta, ok siamo cambiati noi come è cambiato Contessa, il mondo nel  frattempo ha sviluppato un nuovo frasario da cui le forme d’espressione tutte attingono per descriverci. Va bene, ci sta. Ma ciò non dovrebbe essere una discriminante. Perché, in fondo, “come era ieri così non sarà più domani” ci viene detto in “madre”.

Ascolto dopo ascolto sono entrata nell’universo della vita (o quel che sia) dopo la morte tratteggiato da Contessa, esistenzialista e nichilista al tempo stesso. In questo viaggio catabatico ho scoperto un disco sicuramente molto più stratificato, non perché particolarmente pregno di elucubrazioni, ma complesso proprio nei termini della materia che lo compone: per l’epoca storica in cui si inserisce, l’età adulta che ci porta inevitabilmente a vedere tutto problematizzandolo, infine per le riflessioni che si aprono nella nostra mente una volta terminato l’ascolto.

Come il cinema di Trakovskij (non a caso, citato nell’incipit del disco con incisi da Stalker, che torneranno poi più avanti nella traccia “felice”) quello che richiede il disco in questione è un’attenzione costante e una sensibilità ricettiva allerta per lasciarci immergere nelle profondità delle sue immagini.

Si apre così post mortem, in maniera quasi metanarrativa, con una traccia sdoppiata che mette al centro il lirismo anti-contemplativo di “io”, dove il protagonista (una prima persona singolare che potrebbe benissimo farsi plurale) si addossa tutte le colpe dei propri malesseri. Già in prima battuta emergono degli arrangiamenti che controbilanciano da un lato un minimalismo super essenziale e dall’altro commistioni ritmicamente più strutturate, dove si susseguono intricate digressioni sonore nell’andirivieni di ripetizioni circolari e riverberi sintetici. Nel gioco chiaroscurale tra solennità desolata e beat scanzonati, emerge la voce straniata e straniante di Contessa, ridotta spesso a sussurri o inflessioni stropicciate.

A livello sonoro, in maniera analoga rispetto alla matrice concettuale di cui pocanzi, ci troviamo di fronte ad un album disposto su vari livelli. C’è il trip onirico con le melodie arabeggianti di “davos” (brano cucito esplicitamente seguendo le suggestioni del romanzo  La Montagna Incantata di Thomas Mann); le derive industrial di “f.c.f.t” e di “buio” con i controcanti stralunati che fraseggiano quello che probabilmente è il manifesto del disco: “c’è poca luce nel mondo”. Passando poi per il funky-groove di “colpo di tosse” (altra autoanalisi, stavolta sul processo creativo); il synth pop dal ritmo martellante di  “nella parte del mondo in cui sono nato” con tanto di coro di bambini. C’è poi il requiem sincopato e angosciante della titletrack interamente strumentale posto esattamente a metà del lotto; l’elettronica new-wave di “buco nero”; il pop fragoroso e spettrale di “carbone” (in cui si autoanalizza la fine di un rapporto) .

Pezzo particolarmente interessante è poi “felice”, altra perla synth pop ritmicamente incalzante che descrive cosa voglia dire per il cantautore essere felice, allacciandosi all’esistenzialismo kafkiano (nel testo lo scrittore  boemo viene citato sia a livello bibliografico con riferimenti a Le Metamorfosi e sia a livello biografico nel rapporto con Felice Bauer). Molti hanno letto dell’ironia nel titolo; personalmente ritengo che sia quanto di più autentico si possa associare al concetto di felicità, come presa di coscienza che la descrive piuttosto come una sensazione che abbraccia la propria malinconia, la propria inquietudine e, infine, ci convive. Del resto, come insegna Tarkovskji (ripreso nell’inciso finale del pezzo), la felicità è forse più paragonabile a un sogno che diventa realtà, a una ricerca che si autocompie nella consapevole accettazione dell’inquietudine che si ha dentro di noi.

Bellissima anche la chiusa con “un’altra onda” un raffinato instant classic cantautorale dalle tinte tenui da cui, in ultima battuta, pare proprio che un po’ di luce riesca a penetrare da tutto il buio torvo che ha colorato le tracce fino a questo punto.

Al netto di tutto, è il disco che ci stavamo aspettando? Credo di sì. Ma forse no, e non è un male. Sicuramente con post mortem Contessa ridefinisce i dettami di un genere che era ormai imploso in se stesso, regalandoci domande e mettendo in discussione anche il nostro modo di fruire la musica. Potremmo definirla l’era del post-indie.

 

 

TRACKLIST

  1. io
  2. buco nero
  3. colpo di tosse
  4. davos
  5. colpevole
  6. f.c.f.t
  7. post mortem
  8. felice
  9. nella parte del mondo in cui sono nato
  10. madre
  11. carbone
  12. buio
  13. un’altra onda

 

Uscite le date del tour:

 

 

Immagine che rappresenta l'autore: Francesca Mastracci

Autore:

Francesca Mastracci