Il mondo dei videogames ci ha insegnato che bisogna sempre salvare la partita prima di uscire dal gioco. “Everything non saved will be lost”: questo il monito imprescindibile con cui abbiamo imparato a confrontarci nell’universo virtuale ma che siamo sempre così poco in grado di applicare alla vita di tutti giorni, quella reale. Sì, ma che cos’è reale e cosa no in un mondo minacciato dall’oblio, dal senso di fine, dalla perdita di qualsiasi punto certo a cui appigliarsi? Per cui, la domanda legittima che seguirebbe è: cosa è necessario salvare e cosa no?
Everything Not Saved Will Be Lostè il titolo dell’ultimo lavoro in studio degli inglesissimi Foals, uscito lo scorso marzo e destinato ad avere un seguito entro fine anno. Si tratta del progetto più ambizioso messo in atto dalla band di Oxford, che decide di raccontare una storia divisa in due capitoli, concepiti per essere complementari ma che pure vivono una vita autonoma indipendentemente l’uno dall’altro, come ha dichiarato Yannis Philippakis (cantante e leader del gruppo). Certamente il fatto che bisognerà aspettare qualche mese prima di poter ascoltare la seconda parte rende questo lavoro godibile a metà, ma allo stesso lo investe dell’aspettativa di quanto dichiaratamente preannuncia.
Molte riviste inglesi lo danno già come album dell’anno. Forse la definizione è un po’ troppo avventata (sia perché siamo ancora a inizio anno e sia perché, appunto, bisognerebbe perlomeno aspettare la seconda uscita con cui fa coppia), ma comunque è innegabile il fatto che ci troviamo difronte ad un ottimo lavoro, realizzato con una cura maniacale verso la realizzazione di un suono composto, variegato di molteplici sfumature e molto radioattivo. La costruzione c’è e si sente sia in bene che in male, peccando talvolta di pomposità barocca, ma sempre con quel piglio sfrontato quanto basta per non risultare alla fine fastidioso, ma anzi rivelando tutto il potenziale di una band ben consapevole delle proprie potenzialità.
Musicalmente, l’evoluzione avviata con What Went Down(del 2015) arriva ad un suo definitivo punto di svolta che spinge in maniera anche abbastanza prepotente l’alt rock di matrice britannica verso un math-pop con sintetizzazioni a nervi scoperti e zampilli ambient, glitch, con incursioni accennate di electro-funk e un retrogusto dream sempre presente.
Incastri ritmici che non hanno paura delle audaci sperimentazioni e che mettono insieme sferzate elettroniche, mutazioni dance, catarsi sintetiche e rarefazioni immaginifiche, conducendo l’ascoltatore verso uno scenario a metà strada tra la desolazione apocalittica e lo scoppio incandescente di un’esistenza mutata ma piena di vita nuova (come le foglie rosse degli alberi in copertina che si stagliano contro la facciata di un palazzo urbano: un’oasi felice, per quanto artificiale).
La tracklist si compone bilanciando una sequela di pezzi ora in stile dance floor (“In Degrees” ed il primo singolo estratto “Exits”), ora alienanti (l’etnica “Café D’Athens”), eclettici (come “White Onion” e “Sunday”, talmente tanto variegato da sembrare due pezzi in uno), ondeggianti (le meravigliose linee di basso in “Syrups” che scandiscono un ritmo in partenza dub e sul finale pieno di groove serrato) o inguaribilmente trasognanti (come la strumentale e proto-nipponica “Surf, Pt. 1”, con le sue marimbe, e le due tracce che suggellano il disco, una in apertura “Moonlight” e “I’m Done With The World (& It’s Done With Me)” in chiusura).
Un ottimo disco, in sintesi, che ha tutte le carte in tavola per essere tra i migliori dischi dell’anno, ma c’è qualcosa che manca. Sarà forse il volume due?
Tracklist:
- Moonlight
- Exits
- White Onions
- In Degrees
- Syrups
- On The Luna
- Cafe D’Athens
- Surf Pt.1
- Sunday
- I’m Done With The World (& It’s Done With Me)
A cura di: Francesca Mastracci